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All the Beauty and the Bloodshed

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VOTO: 8.5

L’arte che decide di scendere in campo

All the Beauty and the Bloodshed, della regista Premio Oscar Laura Poitras, è il vincitore del Leone d’Oro alla 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (in Italia uscirà distribuito da I Wonder Pictures).
Il documentario racconta la storia della fotografa americana Nan Goldin e la sua battaglia contro la famiglia Sackler, nota benefattrice dei più grandi musei del mondo, ma anche proprietaria della società farmaceutica Purdue Pharma, responsabile di migliaia di morti per overdose di Ossicodone (il suo farmaco di successo, OxyContin) falsamente prescritto come farmaco che non creava dipendenza.
Andrea Romeo, Founder e CEO I Wonder Pictures ha commentato così il riconoscimento «Laura Poitras, di cui abbiamo avuto il privilegio di distribuire Citizenfour (che le è valso sia un Oscar che un Pulitzer) ci porta ancora una volta a immergerci nella nostra contemporaneità a profondità inesplorate. Lo fa con un film che parla del nostro mondo ossessionato dal profitto e dal potere, lo fa con un film sull’arte e sulla giustizia che ci fa scoprire i meccanismi della comunicazione contemporanea. All the Beauty and the Bloodshed è una esaltante avventura al fianco di una magnifica artista come Nan Goldin».
Tutto comincia con P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now), un gruppo che Goldin ha fondato per ‘to shame’ (far vergognare) i musei cosicché rifiutassero i soldi della famiglia Sackler (responsabile della crisi degli oppioidi), criticare con disapprovazione esplicita la dipendenza che hanno provocato in chi faceva uso di queste pillole e promuovere la riduzione del danno.
Il doc ha inizio significativamente proprio dalla protesta, la macchina da presa inquadra mentre si preparano le buste coi flaconi che vengono lanciati; subito dopo i membri di P.A.I.N. si stendono a rappresentare coloro che sono deceduti. Ascoltiamo anche l’artista-attivista interrogarsi se servono le battaglie, una domanda più che legittima con cui lo spettatore si sente ancor più chiamato in causa.
Il lavoro della regista americana intreccia diversi materiali della Goldin le sue diapositive, le fotografie rivoluzionarie con cui ha lasciato il segno (basti pensare a “The Ballad of Sexual Dependency” in cui vengono ritratti coloro che ha definito «i miei amici» perché effettivamente a lei vicini, con cui ha ha abitato, in un momento in cui la propria abitazione era diventato era un rifugio per gente che andava e veniva) e i rari filmati della sua lotta personale con interviste intime, in cui la fotografa si racconta anche rispetto a quanto tutta questa lotta la riguardi per questioni personali – e l’ha trasformata in una questione collettiva.
In occasione di una mostra della fotografa a Milano, aveva voluto specificare: «Non siamo mai stati emarginati perché noi eravamo il mondo. Non ci interessava come ci consideravano le persone conservatrici, non avevamo tempo per loro, non entravano nemmeno nel nostro radar. Eravamo in tanti con uno stile di vita simile, per alcuni legato a degli ideali politici, per altri al bisogno di trasgressione contro le regole e le convenzioni della società, ma non c’era emarginazione, solo chi è davvero retrogrado può vederla in questo modo». Sono parole che forniscono la percezione di come questa donna sia sempre stata chiara in merito alla propria posizione, a ciò che ha vissuto e immortalato in uno scatto.
«Una delle cose interessanti di P.A.I.N. è che abbiamo avuto solo sei azioni nei musei e ognuna di esse è stata pianificata e pensata con molta attenzione, soprattutto per quanto riguarda le immagini» ha osservato Megan Kapler, membro del gruppo. Il titolo del film cattura perfettamente questa essenza. “All the Beauty and the Bloodshed” (Tutta la bellezza e lo spargimento di sangue) è stata tratta dalla valutazione medica delle risposte della defunta sorella di Goldin, Barbara, a un test di Rorschach.
Innegabilmente quest’opera apre gli occhi su un tasto scottante: come dietro le donazioni verso musei anche di prestigio ci fossero anche ombre, come quei soldi fossero frutto di chi è deceduto (consapevole e non di ciò che stava assumendo). Se per la Goldin la fotografia deve essere un’emanazione di sé e «tutto ciò che coglie deve essere com’è veramente», coerentemente anche la Poitras, declina la Settima Arte col documentario, e racconta l’artista cresciuta nella cultura e nel sottobosco underground della Grande Mela senza filtri, dando spazio e voce in primis a lei e a tutti coloro che le ruotano attorno, senza avere timore di mostrare le lotte. Nello spettatore s’insinua il beneficio del dubbio che i musei che ricevevano soldi dalla famiglia Sackler potessero sapere; ciò che è certo è che, in seguito alle battaglie, abbiano preso provvedimenti. La macchina da presa riprende, lascia la parola a chi sa e ha vissuto sulla propria pelle e rilancia la palla al pubblico nel riflettere su ciò che è stato e su come l’arte possa scendere in campo, ‘denudare’ determinati meccanismi e ridare dignità innanzitutto a chi non c’è più.

Maria Lucia Tangorra

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