Il cineasta di tutti, l’intellettuale di nessuno
C’era una volta Jean-Luc Godard. Ma, soprattutto, c’era una volta la possibilità di un altro cinema, in un’epoca irripetibile che ci abbandona per sempre in modo contestuale alla sua dipartita.
Si leggerà, più o meno ovunque, che ci ha lasciati il vate della celeberrima Nouvelle Vague francese. Etichette, per non dire balle, come forse sarebbe piaciuto a lui. Imprigionare il cinema di Godard in un ambito significa mortificarlo. Lui il cinema l’ha preso e lo ha cambiato per sempre. La Settima Arte, nelle sue mani, è divenuta arma di attacco e nel contempo di difesa. Ha caricato, al pari di un toro infuriato, quel sistema capitalistico che ha fagocitato, inevitabilmente, anche l’Arte Cinematografica; replicando, con inusitata lucidità, alle inevitabili reazioni di quello stesso status quo punto sul vivo. Addio alle regole fossilizzate, allora. Nel cinema di Godard termini quali regia, sceneggiatura, fotografia, interpretazioni smarrirono d’un tratto tutto il loro senso precostituito. Per lasciare spazio a regole nuove e differenti: un cinema che poteva appartenere a chiunque, terreno fertile di sperimentazione dando l’impressione di essere costruito spontaneamente nel momento stesso del proprio fluire. Una sorta di poesia – oppure prosa, che dir si voglia – di cui tutti erano artefici, in primis quegli stessi spettatori di regola relegati ad ruolo di totale passività.
Dopo alcuni cortometraggi, lo shock inizia nel 1960 con Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle), titolo entrato ormai da tempo nella leggenda. Un film di genere senza genere. Processo di disintegrazione del classicismo cinematografico. Il cinema muore per rinascere. E Godard impone da subito il proprio stile, come solo i grandissimi riescono a fare. Prendete l’elenco telefonico di una qualsiasi area metropolitana nel mondo: ancora non basterebbe a contenere tutti i nomi dei cineasti influenzati da un’opera come Fino all’ultimo respiro.
Scorrendo la sua filmografia si capisce bene l’impossibilità di racchiudere le opere di Godard in una lettura critica univoca. Il suo modo di fare cinema vaga in totale libertà, privo di qualsivoglia vincolo. L’esplorazione dell’universo femminile, reiterata nel corso degli anni sempre con il suo stile unico e personalissimo, si concretizza grazie alla musa Anna Karina con titolo quintessenziali quali ad esempio La donna è donna (La femme est una femme, 1961) e Questa è la mia vita (Vivre sa vie: Film en douze tableaux, 1962). Cronache di lotta per l’emancipazione e l’identità assai in anticipo sui tempi.
La questione politica, incentrata sul famigerato conflitto di classe, non poteva che arrivare negli anni settanta, decennio di riflusso contestatario. Esemplare, in tal senso, il film Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien, 1972), sintomatico di un particolare modo di fare cinema con star hollywoodiane (Jane Fonda, Yves Montand) utilizzate per abbattere un sistema sclerotizzato. Prassi che si ripeterà in opere in larga parte incomprese quali King Lear, del 1987.
Pochi autori come Jean-Luc Godard hanno inoltre riflettuto con insolita profondità sul travaglio della “creazione” cinematografica. Un titolo per tutti Passion (id, 1982) con Isabelle Huppert e Michel Piccoli. Una passione autentica e generosa verso l’arte del cinema che si concretizzerà nel monumentale documentario Histoire(s) du cinéma (1989-1999), otto parti appunto dedicate alla Storia della Settima Arte, per un documento visivo di imprescindibile importanza. Del resto la carriera di Godard si è spesso mossa lungo il labile confine tra finzione e documentario, azzerando infine le distanze come testimonia il suo ultimo lavoro datato 2018 Le livre d’image. Tra cortometraggi, film di finzione e documentari, per Godard il Cinema è stato una cosa sola, unica ed indivisibile.
Troppe altre opere sarebbero state meritevoli di menzione, poiché scolpite nella memoria di ogni cinefilo o addetto ai lavori. Tuttavia lo spazio è tiranno e, direbbe forse Godard stesso, l’attenzione del lettore fallace.
Jean-Luc Godard è morto a novantuno anni scegliendo, ci dicono le cronache, la strada del suicidio assistito in Svizzera. L’ultima scelta coerente di un uomo che ha sempre creduto nella preziosa individualità dell’essere umano, contrastando con asprezza ogni possibile sovrastruttura esistente. Il suo genio ci mancherà in maniera lancinante, anche perché sappiamo tutti che la società globalizzata di oggi mai lascerebbe spazio ad un altro Godard.
Daniele De Angelis