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A New Moon over Tohoku

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VOTO: 7.5

La quiete dopo lo tsunami

Davvero degno di nota, a ben vedere, il numero di documentari qualitativamente sopra la media che abbiamo potuto scoprire, quest’anno, al Rome Independent Film Festival. Tra questi un elogio particolare se lo è meritato, per l’eccezionalità delle circostanze (ma non solo per quello), il toccante A New Moon over Tohoku. Ne è autrice Linda Ohama, film-maker canadese di origini giapponesi (viene da una famiglia stabilitasi in Nordamerica ormai da tre generazioni), che già di suo ha una storia interessantissima da raccontare. E ce l’ha voluta proporre non solo attraverso le immagini, ma con l’aggiunta dei rilevanti dettagli emersi, dopo la proiezione, durante quel Q&A col pubblico rivelatosi poi di particolare intensità; tale, insomma, da evidenziare in che modo un gesto di solidarietà individuale abbia potuto trasformarsi in importante testimonianza collettiva. La genesi del suo lavoro rimanda infatti a una decisione stimabilissima in sé: subito dopo il terrificante evento naturale del 2011, con un fortissimo terremoto e il successivo tsunami a propiziare anche il disastro nucleare di Fukushima, la Ohama si era unita ai tanti volontari stranieri recatisi nelle aree devastate per prestare soccorso agli abitanti. L’idea iniziale consisteva nel restarci un mese o poco più. Ma la peraltro anziana regista si è fatta tanto coinvolgere dalle delicate situazioni umane ivi incontrate, da volerle poi raccontare in un film. E così, spostandosi tra le varie prefetture colpite dalla tragedia, lì in Giappone ha finito per restarci due anni e mezzo, filmando storie anche abbastanza differenti tra loro con i pochi mezzi a disposizione e trovando alloggio, di volta in volta, presso luoghi tutt’altro che ospitali.

Il cinema del dopo Fukushima ha già affrontato più volte, negli ultimi tempi, i vari risvolti di questo dramma, esplorandone con una certa ampiezza di vedute tanto le conseguenze sociali che il peso assunto nell’immaginario collettivo. In A New Moon over Tohoku le diverse componenti del discorso convivono armonicamente. L’eccellente documentario, che si configura innanzitutto quale empatica ed elegiaca ricognizione di un territorio martoriato, sia a livello naturale che antropologico, arriva a condensare ed esprimere l’elaborazione del lutto da parte dei protagonisti con una sensibilità rara. Sono davvero tante le persone che hanno scelto di raccontarsi in questo modo, il che depone innanzitutto a favore della fiducia che la regista ha saputo conquistarsi presso la gente da lei incontrata, durante la lunga permanenza in Giappone.
Madri che, cercando di assicurarsi che i figli stessero bene, hanno rischiato di farsi travolgere dalle acque. Coppie anziane fuggite a malincuore dalle proprie abitazioni. Altra gente sopravvissuta più o meno per miracolo. Attempati e austeri prosecutori delle più antiche tradizioni locali, come ad esempio il vecchio in cui sembra ancora ruggire l’antico spirito dei Samurai. Nel suo dolente viaggio Linda Ohama ha conosciuto casi anche diversissimi tra loro riuscendo, soprattutto, a stabilire con ciascuno di essi quel contatto profondo che le ha permesso, poi, di far passare attraverso lo schermo certe sincere emozioni. Si parla di ciò che questi uomini e donne hanno perso, di ciò che sono riusciti invece a salvare. Ma anche di come la loro vita si stia modificando in base a un processo di ricostruzione che, in taluni frangenti e per via di decisioni politiche non sempre adeguate, pare essersi enormemente rallentato. E questa sorta di limbo, di stasi esistenziale, trova del resto un’adeguata cornice nei luoghi desolati che il ritirarsi delle acque e l’impatto delle radiazioni hanno lasciato, luoghi ripresi dalla regista con uno sguardo rispettoso, partecipe, acuto.

Stefano Coccia

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