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87 ore

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VOTO: 8.5

Fame d’aria

Film come 87 ore hanno nel proprio DNA una missione che va ben oltre quella normalmente assegnata a un prodotto audiovisivo, cinematografico e televisivo che sia, ossia quella che vorrebbe quest’ultimo essere principalmente un mezzo attraverso il quale veicolare una storia, vera o immaginaria. Film come quello scritto e diretto da Costanza Quatriglio, nelle sale a partire dal 23 novembre con Cineama dopo l’anteprima al Festival di Arcipelago e in attesa della messa in onda nella seconda serata di Rai Tre il prossimo 28 dicembre, si fanno carico di una responsabilità molto più grande, di quelle che farebbero tremare i polsi a chiunque. Di fatto, l’opera firmata dalla Quatriglio è prima di tutto una testimonianza filmica che va al di là della sua natura filmica, poiché si tratta di  un documento di cruciale importanza, oltre che una prova schiacciante che assurge a una duplice e in egual misura determinante funzione: il racconto di una tragedia e la sua diffusione da una parte, il suo essere “portatore sano” di un atto di denuncia contro la violazione dei diritti umani.
Il documentario porta sullo schermo la drammatica vicenda della morte di Francesco Mastrogiovanni, causata dalla contenzione a cui è stato sottoposto durante il T.S.O. nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, nel lasso di tempo che va dal 31 luglio al 4 agosto del 2009. Ma una precisazione va fatta ed è doverosa circa la tipologia di operazione portata a termine dalla cineasta e dal suo entourage: 87 ore non è – e non vuole essere – una biografia dell’ex maestro campano, ma un’inchiesta a tuttotondo sui motivi che hanno portato al suo decesso. Il baricentro drammaturgico, infatti, si focalizza unicamente – e volutamente – sugli ultimi giorni di vita di Mastrogiovanni, dal momento in cui viene prelevato dalle forze dell’ordine e dal personale medico dal luogo dove si trovava al momento (una spiaggia di un campeggio nel Cilento), sino agli istanti immediatamente successivi alla sua atroce morte per annegamento interno nella stanza del reparto psichiatrico. E pensando con attenzione a questi estremi viene da pensare a una metaforica ciclicità del racconto, costruita attraverso l’elemento dell’acqua che da fonte di vita si tramuta in transfert di morte. In questo modo, l’autrice circoscrive chirurgicamente la narrazione delimitando in maniera netta i confini della timeline, quanto basta per indicare a se stessa e al fruitore di turno la “zona rossa” all’interno della quale muoversi. Ciò non presta il fianco a tutta una serie di divagazioni e digressioni che potrebbero in qualsiasi momento spostare il fuoco su altro. Nel mezzo una contenzione brutale che lo ha reso protagonista inerme di pratiche mediche che si sono rivelate letali, a cominciare dalle cinghie ai polsi e alle caviglie che per giornate intere lo hanno tenuto legato al letto e segregato tra le quattro mura di una stanza d’ospedale. Un segnale, questo, molto preciso sulle intenzioni che la regista intende perseguire sino in fondo e senza alcuna esitazione. Ed è questa chiarezza d’intenti a rappresentare uno dei tanti punti di forza della pellicola; chiarezza che crea un patto molto chiaro e deciso con lo spettatore su ciò che il film vuole raccontare e su come lo vuole raccontare.
L’osservazione è la chiave principale di lettura e allo stesso tempo il cuore pulsante del film. Questa passa attraverso l’apporto determinante e imprescindibile di un aiuto regia inaspettato, vale a dire il circuito di videosorveglianza dell’ospedale psichiatrico di Vallo della Lucania. Inaspettato perché in molti casi che presentano analogie con quello di Mastrogiovanni (da Giuseppe Casu ad Andrea Soldi e Paolo Guerra) non possono contare sul supporto di un testimone oculare come appunto l’impianto di videosorveglianza. In tal senso, un film come 87 ore ribalta molti dei cliché legati all’uso che se ne fa e sulla sua importanza. Alla violazione della privacy, in effetti, si contrappone l’utilità dell’hardware per fare luce su misteriosi e sanguinari accadimenti. La sconcertante evidenza di quelle immagini nel raccontare la verità, crude e dure tanto da costringere chi le vede a distogliere lo sguardo, non lascia il benché minimo spazio a dubbi e a libere interpretazioni. Per questo, la regista si affida per gran parte del tempo a un occhio meccanico implacabile e disumanizzante per restituire senza filtri una serie di eventi disumani. Da questi tremendi e a tratti insopportabili fotogrammi, gelidi e asettici nella loro spietata autenticità, la Quatriglio riesce a trarre una narrazione. E la mente non può non tornare agli orrori casalinghi catturati e mostrati da Wiseman in Domestic Violence. Il risultato è un mosaico composto da tasselli che nel corpus dell’opera trovano la loro collocazione in una rigorosa e lineare successione. Quest’ultima non contempla l’ipotesi di una manipolazione delle immagine, restituite inalterate e solo in rarissimi passaggi usate come contributo video al commento sonoro di stralci di interviste (mai frontali), con tutta la loro carica emotivamente devastante scagliata come una raffica di pugni alla bocca dello stomaco dello spettatore.
La regista palermitana dimostra di avere piena cosciente del suo ruolo e conoscenza del peso che la pellicola in questione si porta dietro, tanto che l’attenzione che rivolge ai contenuti e al modo in cui questi prendono forma e sostanza sullo schermo ne è la riprova. La mancanza di rispetto e la spettacolarizzazione morbosa della sofferenza altrui oramai dilaganti, figlie biologiche della “tv del dolore” e dei programmi da essa partoriti nei palinsesti dell’ultimo decennio, sono sabbie mobili nelle quali è sempre più facile scivolare. 87 ore, per fortuna e grazie all’intelligenza di colei che lo ha concepito, si cura di starne bene alla larga. Questo è un altro grande merito che va riconosciuto al documentario.
La Quatriglio, con- scelte coraggiose e radicali, tanto drammaturgiche quanto registiche, riesce a conferire al suo film un’identità e un’indipendenza artistica, che consentono al tutto di non essere fagocitato e schiacciato dall’argomento trattato. Solo così la vicenda che riporta continuerà ad avere bisogno del film come strumento di diffusione della vicenda stessa. Capita spesso, infatti, che l’opera passi in secondo piano, perché la vicenda narrata al suo interno è un “gigante” davvero difficile da controllare e da gestire, vedi ad esempio È stato morto un ragazzo o 148 Stefano – Mostri dell’inerzia, rispettivamente sui casi di Aldrovandi e Cucchi. Si finisce con il ridurre l’espressione artistica a un contenitore dove riversare le immagini e le parole, al di là che questa sia riuscita oppure no. Per tanto, la nostra è una constatazione sull’utilizzo che si fa di questa tipologia di film, non un giudizio di merito. 87 ore è – e resterà  un documento filmico necessario, che si doveva fare e che per fortuna è stato fatto, utile anche per recuperare attraverso la sua visione un briciolo di coscienza critica da parte dello spettatore che viene sempre più spesso meno, per riaffiorare solo davanti a tragedie che colpiscono la nostra Società.

Francesco Del Grosso

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