Questa è la canzone di Charlotte (Rampling)
Nella dimensione del ricordo, del rimosso, dei sentimenti soffocati in fondo all’anima, così abilmente esplorata da Andrew Haigh (già regista dell’apprezzato Weekend), anche il richiamo emotivo esercitato da determinate canzoni o dalla musica in genere ha la sua rilevanza. Accade così che The Turtles con Happy Together o altre storiche band, in primis The Platters, facciano da colonna sonora a uno degli anniversari di matrimonio più mesti e malinconici che si siano mai visti sul grande schermo. E quel ballo finale, invece di assicurare all’anziana coppia protagonista una possibile catarsi, non fa che sancirne la deriva in un universo affettivo solcato ormai da crepe profonde.
Facendo qualche piccolo passo indietro, è opportuno segnalare che per questa sottile e comunque impietosa lezione di cinema introspettivo, offertaci dal regista britannico, l’ispirazione è arrivata da un racconto di David Constantine intitolato In Another Country, che nella trasposizione filmica ha però subito diverse modifiche; aggiunte e cambiamenti, questi, parsi idonei a scavare ancor di più nel sentire dei personaggi principali. Così almeno si è portati a pensare, dopo la visione di un film come 45 anni, che vive di increspature nei volti e nelle voci dei protagonisti quasi fossero il riflesso di autentici terremoti interiori.
Fattore scatenante di una così repentina involuzione, nell’apparentemente solido rapporto affettivo che da una vita tiene legati Kate e Geoff, i due anziani splendidamente impersonati da Charlotte Rampling e Tom Courtney (a entrambi l’Orso d’Argento per la migliore interpretazione, all’ultima Berlinale), è il ritrovamento in un ghiacciaio alpino del cadavere perfettamente conservato di Katya, amore giovanile dello stesso Geoff che un tragico incidente in montagna, qualche decennio prima, aveva fatto scomparire per sempre.
Questa notizia non si limita a turbare profondamente l’uomo, ma scatena nell’attempata e orgogliosa consorte una gelosia fuori dal tempo, una tempesta interiore in grado di suggerire ricerche sempre più morbose sugli anni giovanili del marito e di minare così la routine, la stabilità del loro rapporto.
La resa filmica di una trama di per sé semplice, lineare, è però quanto di più sorprendentemente profondo si possa immaginare: nelle rughe dei due attori protagonisti il consapevolissimo Andrew Haigh riesce quasi a scolpire il tempo, offrendo così un appiglio a quel disagio rimasto sotto traccia per anni e destinato probabilmente a non uscire mai allo scoperto, senza un intervento talmente beffardo del caso. La sequenza più ispirata, in tal senso, è senz’altro quella in cui lo scorrere delle diapositive trovate da Kate va a sovrapporsi, nella semioscurità di una stanza, agli occhi sbarrati della donna stessa, che non riescono proprio ad accettare certe improvvise rivelazioni sull’uomo che per tanti anni le è stato accanto.
Ciò che ne deriva è una dinamica da kammerspiel, che si conferma tale persino quando la coppia esce dagli spazi angusti della propria dimora e si confronta con la realtà circostante, proiettandosi quindi in una forzata indagine del proprio legame sentimentale che assume toni di volta in volta amari, disillusi, rassegnati, persino feroci. Così come feroce è anche la descrizione di certi ambienti della medio-alta borghesia britannica, dove il rispetto delle convenzioni sociali e altri elementi di pressione psicologica, pur tratteggiati con qualche lampo di ironia tipicamente inglese, sottraggono ulteriore sincerità a quei residui di tenerezza e di empatia che scivolano via, dal presente della coppia, non diversamente da un abito logoro e ormai ridotto a brandelli.
Stefano Coccia