Argentino e argentiano
La vita è fatta anche di piccoli furti, ma noi preferiamo chiamarli prestiti. Per introdurre un bel film che di sicuro non si è limitato a rubare, ma ha preferito addirittura saccheggiare – con esiti peraltro apprezzabilissimi – un certo tipo di immaginario orrorifico, ci è sembrato opportuno far ricorso anche noi a un piccolo “prestito”. Il titolo del pezzo che state leggendo, Argentino e argentiano, ci è stato infatti suggerito da una battuta fatta dallo stesso Massimiliano Supporta, Direttore Artistico del TOHorror Film Fest, al momento di presentare il film di Luciano Onetti; il quale è effettivamente argentino, di origine, ma può a buon diritto essere definito “argentiano”, per l’adesione così spudorata e diretta a certi modelli cinematografici. C’è da scommettere che al buon Dario Argento in questo momento staranno fischiando le orecchie. Così come sono fischiate al direttore del festival torinese, festival che peraltro quest’anno ha cambiato casa: molto “cool” e al contempo funzionale lo spazio di Officine Corsare, che ci ha accolto il 4 novembre per la serata inaugurale. Ma forse siamo di parte, nel giudicare tale accoglienza. Aver trovato ad attenderci birrette artigianali e un piatto fumante di gnocchi al pomodoro, in una fredda giornata di pioggia, ci ha messo subito di buonumore.
Terminata la digressione “godereccia”, torniamo pure a parlare di cinema. Perché dopo una partenza fiacca (il lungometraggio irlandese Love Eternal di Brendan Muldowney non ci ha convinto più di tanto), la prima serata del TOHorror ha decollato di brutto col film di Onetti, Sonno profondo. Luciano Onetti superstar, verrebbe da dire, considerando che in un impeto di autarchia e di selvaggia autorialità il cineasta argentino figura quale regista, soggettista, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore e interprete. Anzi, dimenticavamo un ruolo importantissimo: compositore delle musiche! Perché la colonna sonora simil-Goblin di Sonno profondo genera da subito un’atmosfera che richiama, senza mezzi termini, il giallo italiano anni ’70. E in particolare le opere di Dario Argento, ça va sans dire. Soggettive esasperate. Inquadrature delle mani dell’assassino, rigorosamente coperte da guanti neri, che si ripetono ossessivamente. Dettagli della bocca e degli occhi della vittima. Costruzione filmica ansiogena splendidamente legata agli spazi dove avvengono i delitti, che hanno peraltro l’Italia quale collocazione geografica, come a rendere più filologico il discorso. L’identificazione di turbe sessuali e di un morboso imprinting famigliare, quali molle atte a scatenare la violenza omicida. Tutto ciò confluisce in modo sconnesso, rapsodico, quasi onirico, in un lungometraggio di appena 67 minuti, la cui trama estremamente scarnificata funge più che altro da pretesto per questa peculiare incursione nell’immaginario argentiano; un omaggio cui si può imputare l’eccessivo manierismo, è vero, ma che riesce anche a sorprendere per l’elegante danza di morte costruita intorno a quei corpi/feticci, in trepidante attesa di lame pronte a infierire e di rossi zampilli di sangue.
Stefano Coccia