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Unless

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VOTO: 6

La parola ai silenzi

Unless è quel tipo di film destinato, purtroppo per il suo autore Alan Gilsenan e per il pubblico che avrà modo di vederlo, a sciogliersi come neve fresca al sole. Lo sciagurato epilogo, che ovviamente non vi riveleremo, finirà infatti con il rimettere in discussione tutto, a cominciare dall’ottima impressione che l’opera era stata capace di destare nello spettatore di turno per 3/4 della sua durata. Tra quegli spettatori ci siamo anche noi di Cineclandestino che abbiamo avuto modo di incrociarla nel corso dell’ottava edizione del Bif&st, dove è stata presentata nel concorso della sezione Panorama Internazionale, a distanza di qualche mese dall’anteprima mondiale al Festival di Toronto 2016.
Il risultato è un inconfondibile sapore di amaro in bocca, quello che solo le opere che hanno gettato al vento quanto di buono mostrato per gran parte della timeline sanno lasciare. Di conseguenza, la metafora più corretta da utilizzare in questi casi è quella della bolla di sapone. Unless  è una di queste. Ma riavvolgiamo il nastro, quanto basta per spiegare come si è arrivati, nel bene e nel male, tra pregi e difetti, a vanificare tutto, o meglio a permettere che il peso di un finale non altezza delle aspettative create nel fruitore nell’arco della narrazione influisca negativamente sul nostro giudizio. Trattasi di fatto di uno chiusura troppo facile, di uno spessore esponenzialmente inferiore a quello che una simile pellicola, con un racconto di un tale peso specifico, che affronta temi così rilevanti, avrebbe meritato. Per cui, la delusione nei confronti dell’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta irlandese non può che essere molto forte. Il peso di una simile delusione, tanto cocente, non può che determinare un drastico abbassamento nella votazione complessiva, portandola alla linea di galleggiamento della sufficienza.
In altre occasioni l’asticella sarebbe scesa ancora più in basso, ma nel caso di Unless le emozioni che ci ha saputo donare, il coinvolgimento che è stato in grado di provocare e le doti di scrittura, tecniche e interpretative, messe in campo sino al maledetto punto di rottura posizionato in prossimità dei titoli di coda, sono elementi che non possono essere dimenticati e che non meritano di essere cestinati. Tra questi c’è il difficile lavoro di trasferimento dalla carta al grande schermo che Gilsenan ha dovuto affrontare per trasformare in uno script prima, e in un film poi, il romanzo omonimo del 2002 (l’ultimo prima della scomparsa nel luglio del 2003) di Carol Shields. Fare una trasposizione cinematografica dalle pagine del libro della scrittrice canadese, in effetti, non era un compito facile, a causa della natura personale della forma e della narrazione che c’era alla base del DNA letterario. Quella della Shields è sempre stata una scrittura densa, stratificata, più empatica e descrittiva che narrativa. Questo avrà contribuito a fare desistere tutti quei potenziali registi interessati ai suoi testi, tant’è vero che nessun libro della sua bibliografia era stato sino ad ora portato al cinema, compreso quello più celebre e premiato da lei firmato, ossia “In cerca di Daisy”, vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 1995.
Gli ostacoli sul cammino, in tal senso, erano numerosi, ma il regista di Dublino ha saputo in gran parte fronteggiarli, cadendo solo nelle già citate sabbie mobili del finale. Una caduta che, però, si sarebbe potuta evitare solamente mettendo da parte l’epilogo presente nelle ultime pagine delle matrice originale. Ciò assolve in parte il regista dallo scivolone del finale, un regista che è stato in grado di affrontare di petto anche un altro difficile ostacolo insito nelle pagine di “Unless” e più in generale nel corpus bibliografico della scrittrice canadese. La sua è stata sempre una scrittura per e sulle donne, anche se molti addetti ai lavori hanno tentato di dimostrare il contrario. Il regista ha capito intelligentemente cosa fare suo e ciò che era necessario per portare a termine la trasposizione. Affrontare temi universali come i sentimenti, le relazioni umani, i legami familiari e la libertà di scelta, come nel caso del suo ultimo libro, ha permesso a Gilsenan di entrare con più facilità nelle pagine per carpirne l’essenza, ma più in la non si poteva davvero andare. Ha costruito una drammaturgia e l’architettura di un racconto da zero, perché nel testo originale non c’erano. Lo ha fatto partendo dalle emozioni, dalle riflessioni e dalle parole meravigliose custodite nel romanzo, restituite sul grande schermo attraverso i monologhi in voice over della protagonista, alla quale presta corpo e voce una bravissima e intensa Catherine Keener. L’attrice si trasforma in Reta Winters, una donna che ha tanti motivi per essere felice. Ma tutte le soddisfazioni della sua vita tranquilla sono destinate d’un tratto a scomparire quando Norah, la sua figlia maggiore, abbandona inspiegabilmente il college e viene ritrovata per le strade di Toronto. Norah chiede l’elemosina, si rifiuta di parlare e tiene in mano un cartello con su scritto un’unica parola: Goodness.
Il regista affida alla Keener il timone e lei ricambia la fiducia regalando una performance di altissimo livello, alla pari di quelle del resto del cast (su tutti Matt Craven e Hannah Gross, rispettivamente nei panni del padre e di Norah). Sono loro, insieme alla poesia delle immagini disegnate dal regista e all’impatto emotivo di certe scene (vedi il primo tentativo di riportare a casa Norah, la masturbazione del pedofilo e la rissa sfiorata nel vicolo tra il padre e tre ragazzi), i punti di forza di una pellicola che, sino al più volte citato maledetto finale, sa come lasciare un segno in chi la guarda.

Francesco Del Grosso

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