Un sogno chiamato Manhattan
Se già da tempo la regista danese Lone Scherfig ha avuto modo di farsi notare in tutto il mondo con il lungometraggio An Education (2009), è proprio alla Berlinale che le sono stati riconosciuti per la prima volta i meriti con la sua opera seconda Italiano per principianti, vincitore dell’Orso d’Argento nel 2000, nonché una delle ultime pellicole appartenenti al movimento cinematografico Dogma ’95. Se, dunque, quasi tutti gli autori che hanno preso parte a tale corrente hanno ben presto abbandonato i loro iniziali propositi (primo fra tutti, il controverso Lars von Trier), anche la Scherfig può dire, dal canto suo, di aver ormai intrapreso una strada totalmente diversa, adattandosi sempre di più ai canoni del melodramma holywoodiano. E la cosa in sé, di fatto, non le riesce male. Se, infatti, pensiamo a The Kindness of Strangers, il suo ultimo lavoro, presentato in Concorso – e come film d’apertura – alla 69° Berlinale, possiamo notare come esso rispecchi alla perfezione il modello di cui sopra: un melodramma corale, apologia dei buoni sentimenti, con lo scopo principale di smuovere gli animi degli spettatori e che, nel suo genere, può dirsi discretamente riuscito. Vediamo, però, meglio di cosa si tratta.
La vicenda prende il via con una disperata Clara (Zoe Kazan), la quale decide di scappare di casa insieme ai due figlioletti, per sfuggire al marito violento. Contemporaneamente vediamo la giovane Alice (Andrea Riseborough) lavorare sia come infermiera che come volontaria nel gruppi di sostegno, senza mai dedicare del tempo a sé stessa o alla sua vita privata. Marc (Tahar Rahim), dal canto suo, lavora come gestore nel ristorante russo Winter Palace. Anche la sua esistenza è alquanto solitaria, salvo per quanto riguarda la sua amicizia con John Peter (Jay Baruchel), un giovane e timido avvocato. Infine, Jeff (Caleb Landry Jones) è un giovane simpatico e imbranato che, proprio a causa della sua sbadataggine, ha perso vari lavori e non può più permettersi di pagare l’affitto. Le esistenze di tutti loro saranno, così, destinate a incrociarsi, per poi cambiare radicalmente.
Tanti drammi, dunque, per altrettanti (telefonati) lieti fine. Tutto troppo prevedibile? Può darsi. Ma, d’altronde, è anche vero che questo ultimo lavoro della Scherfig non vuole mai presentarsi diverso da com’è e, fin dall’inizio, il suo intento nel volerci regalare un lieto fine è più che mai chiaro. Tanto chiaro quanto leggermente naïf. Proprio come la giovane Clara, la quale, malgrado la drammatica situazione famigliare, cerca sempre di tenere alto il morale dei suoi figli facendo loro credere di essere in vacanza.
E poi, non per ultima, c’è la città di New York (e, nello specifico, il quartiere di Manhattan). Un luogo (secondo quanto vuole comunicarci la Scherfig, ovviamente) che accoglie e nasconde chi vuole scappare. Un posto in cui, anche se non si hanno soldi o una casa, è comunque possibile trovare un modo per sopravvivere. Un vero e proprio mito (come afferma la stessa Clara guardando per la prima volta, insieme ai figli, gli imponenti grattacieli in lontananza) tanto difficile da raggiungere, quanto impossibile da abbandonare.
Ed ecco che, tornando al discorso di prima, la Scherfig di Dogma ’95 quasi non c’è più. Del suo vecchio modo di fare cinema è rimasto, di fatto, solo un costante uso di camera a spalla (con frequenti primi e primissimi piani dei personaggi e inquadrature che sembrano sbirciare gli stessi da dietro mura, tende o porte). Ciò che invece salta subito all’attenzione è il commento musicale, sempre presente – e a tratti anche piuttosto invadente – che, seppur perfettamente in linea con ciò che la regista ha voluto mettere in scena, altro non fa che rendere il tutto eccessivamente manierista.
Detto questo (e nonostante i suddetti elementi che non sempre convincono) questo The Kindness of Strangers, di fatto, sa bene intrattenere lo spettatore. D’altronde, una regista come Lone Scherfig sa il fatto suo. E molto probabilmente sa anche perfettamente come un gustoso melodramma che tanto sta a ricordare una favola natalizia come il presente può funzionare (quasi) sempre.
Marina Pavido