Il potere della stampa
Se poco più di due anni fa – precisamente, nell’ottobre del 2016 – l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America ha sollevato non poche polemiche in tutto il mondo, non sono mancate reazioni anche dal fronte della Settima Arte, dove numerosi cineasti si sono cimentati in necessarie opere di denuncia o, più in generale, di analisi sociale. E proprio per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, assai interessante è la versione messa in scena dal celebre regista canadese Jason Reitman, il quale, ormai noto e acclamato a livello internazionale dopo aver militato per anni all’interno dei circuiti indipendenti, ha realizzato il suo lavoro più politico, mettendo in scena The Front Runner, presentato in anteprima alla trentaseiesima edizione del Torino Film Festival – all’interno della sezione Festa Mobile – in cui, attraverso la storia del candidato democratico Gary Hart (impersonato da Hugh Jackman), in corsa alla Presidenza degli Stati Uniti nelle elezioni del 1988, ha scandagliato in ogni minimo aspetto la figura-tipo del candidato alla Casa Bianca e il potere della stampa sulla sua immagine pubblica.
Ci troviamo, appunto, nel 1987. Gary Hart, del Partito Democratico, è in vantaggio durante la campagna elettorale. Eppure, in sole tre settimane, le cose possono cambiare irrimediabilmente. Ciò accade, ad esempio, quando lo scandalo di una relazione extraconiugale (in questo caso con la giovane Donna Rice) ha un peso mediatico talmente forte da incidere sull’opinione pubblica e sulla stessa credibilità del personaggio in questione.
Ed ecco che il Gary Hart di Reitman sta a rappresentare, in realtà, tutte le figure politiche che, in un modo o nell’altro, hanno visto cambiare il proprio destino a causa del peso della stampa, di quel “quarto potere” che a suo tempo Orson Welles aveva messo in scena in modo così magistrale. Interessante, a tal proposito, notare come la figura del protagonista – tanto positiva e tanto carismatica all’inizio – finisca pian piano per sgonfiarsi come un palloncino, rivelando, tuttavia, non un uomo vile e meschino, ma, più che altro, una figura mediocre, come se ne incontrano tante ogni giorno e che, in passato, era stata la stessa stampa a portare in trionfo. Questo è stato, appunto, il caso di Hart, come, ad esempio, è stato – più recentemente – anche per Bill Clinton, in seguito al tanto discusso sex gate (particolarmente degna di nota, a tal proposito, la figura della moglie di Gary Hart, simile alla ex first lady Hilary Clinton sia nell’aspetto – con l’inconfondibile caschetto biondo – che nella sua reazione in seguito alle scappatelle del marito).
Con questo suo importante lavoro, Reitman vuol farci notare come, di fatto, la storia tenda a ripetersi e quanto sia importante il peso dei media, in passato come ai giorni nostri. Ciò che notiamo, dunque, è un Jason Reitman addirittura maturato, politico fino all’estremo, apparentemente molto meno “indie” di come siamo abituati a conoscerlo, ma che, dall’altro canto, continua a mantenere elementi che hanno fatto da leit motiv all’interno della sua filmografia, come, ad esempio, il copioso uso di camera a spalla (particolarmente d’effetto, a tal proposito, il lungo piano sequenza con cui si apre il lungometraggio, che sta proprio a rappresentare i due livelli messi in scena: quello della realtà così com’è e quello della realtà manipolata dai media) e, non per ultimo, il grande J. K. Simmons all’interno del suo cast. Scelte ben azzeccate che stanno a colmare anche i momenti di stallo dovuti a una messa in scena di quando in quando un po’ ripetitiva.
Marina Pavido