Sempre più giù
Si sa che «La vita è fatta a scale, c’è chi scende e c’è chi sale». Quante volte l’avrete sentito dire, ma nel caso del cortometraggio che ci apprestiamo ad analizzare è nel vero senso della parola, con il soggetto di turno che di gradini ne affronta un numero incalcolabile. In tal senso, a conti fatti, sarà impossibile stabilire con esattezza quante scale avrà percorso l’indomita e unica figura che anima The Divine Way allo scoccare dei titoli di coda.
La pellicola firmata da Ilaria Di Carlo, presentata in concorso alla 14esima edizione di Cortinametraggio dopo un lungo e fortunatissimo percorso nel circuito festivaliero internazionale, ci accompagna lungo la discesa epica della protagonista attraverso un labirinto infinito di scale. Durante la discesa, le scale si trasformano in un paesaggio pericoloso in cui la donna è intrappolata e trascinata al suo interno, conducendoci in più di cinquanta magnifici luoghi.
Il richiamo alla “Divina Commedia” è inevitabile e in effetti è proprio all’odissea letteraria dantesca che l’autrice si è liberamente ispirata per dare forma e sostanza a questo interessantissimo esempio di experimental fiction, approdato nella competizione della kermesse veneta come un oggetto filmico non meglio identificato. Infatti, nella rosa dei selezionati da Vincenzo Scuccimarra, eterogenea per generi e stili, The Divine Way rappresenta senza ombra di dubbio un corpo a sé stante che parla una lingua tutta sua. Ciò ha fatto dell’opera un unicum, laddove la narrazione è volutamente azzerata per dare spazio a un susseguirsi senza soluzione di continuità di immagini magnetiche che catapultano lo spettatore in un flusso a metà tra un loop e un trip visivo fatto di suggestioni, continui cambi di ritmo e di stati d’animo, geometrie di ogni sorta, lunghezza, paesaggio e stile architettonico.
In The Divine Way si assiste a un vorticoso viaggio fisico ed emozionale in un dedalo labirintico, che fa risuonare nella mente del fruitore echi dadaisti e futuristi, in particolare chiamando in causa quello che poi è universalmente riconosciuto come il manifesto del primo, ossia l’Entr’acte di René Clair. Pur concentrandosi su una successione rigorosa di geometrie (che deriva dalla formazione e dagli studi di una cineasta che ha fatto della video-arte, della sperimentazione e delle performance il proprio biglietto da visita) catturate da varie angolazioni (zenit, contro-plongée, dolly e semi-asse), dove quasi in prossimità del fotofinish la regista inserisce persino una sorta di aspirale a metà strada tra un pozzo di San Patrizio e il flusso di cerchi di Vertigo, il modus operandi generale lascia le immagini libere dall’obbligo di produrre un senso e di raccontare una storia, diventano autentiche protagoniste del film. Il risultato non ha altro fine che restituire allo spettatore un intreccio di inquadrature che giocano tra loro, si associano, si dissociano, si compongono, si scompongono, si ricompongono, in un film-balletto destinato a diventare una sfrenata corsa contro il tempo.
The Divine Way è un esperimento affascinante e coinvolgente, che ha nella lunghezza della timeline l’unico neo e limite in termine di fruizione, con quei cinque minuti di troppo che l’appesantiscono ma non ne pregiudicano la riuscita. Questo per dire che chi cerca il classico intreccio di one-lines e un approfondimento dei personaggi farà bene ad andare a cercare altro.
Francesco Del Grosso