Piccolo straniero
Al di fuori della cerchia autoriale della quale fanno parte registi quali Christian Petzold e Fatih Akin, c’è un cinema tedesco contemporaneo che prova ad evadere da quella dimensione televisiva che per troppi anni ne ha tarpato sul nascere le ambizioni. Una questione di forma, oseremmo affermare, in cui progetti anche di un certo impegno finivano con il naufragare proprio per mancanza di un autentico sguardo cinematografico. Ad ulteriore testimonianza di tale discorso ecco selezionato, per il Concorso del Bergamo Film Meeting 2021, questo Rivale, diretto dal poco più che cinquantenne Marcus Lenz. Non certo una voce nuova, dunque; bensì un solido mestierante in grado di realizzare un lungometraggio capace di conquistare i propri spazi.
Rivale è un coming of age che tenta – molto spesso riuscendoci – di imbastire un discorso non banale sul dramma esistenziale dell’immigrazione. Mettendo in scena una situazione limite eppure, temiamo, molto più diffusa di quanto si possa essere portati a pensare. Roman è un bimbo ucraino di nove anni, rimasto in patria con la nonna mentre la mamma, Oksana, si è trasferita in Germania per lavoro. Alla morte della nonna il piccolo intraprende un lungo e faticoso viaggio di fortuna, accompagnato da un uomo non esattamente amichevole, per ricongiungersi alla mamma. Una volta arrivato in Germania troverà una situazione molto particolare, con la mamma unita sentimentalmente a Gert, malato di una grave forma di diabete nonché fresco vedovo della donna cui Oksana, tuttora clandestina, faceva da badante. In Roman scatta una forma di gelosia incontrollabile, che lo porta ad ostracizzare Gert, vedendo in lui il “rivale” del titolo. Le cose saranno destinate a peggiorare quando la mamma verrà ricoverata in ospedale per un attacco di appendicite. Quindi Roman si troverà da solo, con un estraneo, in un paese straniero senza la possibilità di poter comunicare in una lingua che non conosce.
Marcus Lenz, anche sceneggiatore del film assieme a Lars Hubrich, mette subito le cose in chiaro. Rivolgendo lo sguardo al cinema lucidamente pessimista e scevro di qualsiasi orizzonte positivo di Michael Haneke. Quello di Roman sarà un percorso esistenziale segnato dalla morte, sin dalla primissima sequenza in cui trova e seppellisce un uccello privo di vita. Poi assiste al funerale della nonna, evento che porterà al suo trasferimento dall’Ucraina alla Germania, con relativo passaggio definitivo da un ambiente conosciuto e protettivo ad un altro del tutto inospitale. La macchina da presa di Lenz si concentra, ovviamente, sullo smarrimento del bambino, venendo ripagato da momenti di grande intensità nella descrizione di un processo di adattamento destinato a rimanere incompiuto per una serie di motivi, perlopiù drammatici. Rivale è comunque un’opera che non conosce una fine, lasciando giustamente spazio ad un epilogo quantomai aperto e indecifrabile, che tende a far dimenticare piccoli nei come ad esempio una didascalica “scena primaria” con la mamma e Gert nudi sul letto osservati dal bambino. Buona parte della riuscita del lungometraggio è affidata alla spontaneità di Yelizar Nazarenko (Roman), capace di una gamma interpretativa in grado di andare ben oltre quella del classico bambino prodigio ben istruito dalla regia. Il giovanissimo Yelizar Nazarenko si prende il film sulle spalle, ne sostiene quasi da solo il peso e lo porta a destinazione, facendo comprendere in modo chiaro quanto l’ingombrante mole di una vita segnata dagli incomprensibili giochi del Destino possa, alla fine, risultare insostenibile.
Rivale, in fondo, rappresenta una sorta di racconto morale in cui tutti i personaggi sono imprigionati da sovrastrutture sociali. E anche la precoce ribellione di Roman ad uno status per lui impossibile da sopportare difficilmente condurrà ad un riscontro positivo. Un grido di dolore, principalmente sulla reciproca ed “inevitabile” diffidenza verso il diverso che Rivale ha il grande merito di non tacere. Con il ruggito finale di Roman – e la reazione speculare dell’uomo casualmente incontrato – a risuonare a lungo nelle nostre orecchie.
Daniele De Angelis