Destinazione: Alveare
Giunta al sesto e chissà se ultimo capitolo – la titolazione deporrebbe in tal senso, l’epilogo del film assai meno – per la saga di Resident Evil è tempo di bilanci. Accantonando con qualche lacrima interiore il pensiero su cosa sarebbe potuta diventare se George A. Romero avesse preso il timone sin dall’inizio come si vociferava all’epoca (alba del nuovo millennio), bisogna comunque ammettere che il franchise cinematografico condotto in cabina di regia o in produzione dal Paul W.S. Anderson è riuscito ad emanciparsi quasi del tutto dall’ingombrante ombra del videogame ispiratore. Ciò è accaduto per merito di due motivazioni di massima. Il primo è che comunque il cosiddetto “fattore umano” è rimasto sempre ospite, magari latente ma mai del tutto estraneo in un atmosfera da action-horror senz’altro ludica sebbene non puerile. Il secondo punto di forza è, ovviamente, una Milla Jovovich ormai del tutto compenetrata nel proprio personaggio. Anche se un po’ dispiace come la sua carriera sia ormai confinata a quest’unica immagine, per giunta totalmente dipendente dalle volontà del marito/regista. Alicia Marcus “in arte” Alice (persa in un “paese delle meraviglie” del tutto anomalo) arriva da lontano, cinematograficamente parlando. I celeberrimi androidi di Blade Runner potrebbero essere con pertinenza menzionati quali fonti ispiratrici. Milla suscita empatia non quando combatte orde di esseri geneticamente mutati o evita le trappole mortali disseminate lungo il percorso narrativo; bensì nei (abbastanza rari) momenti in cui cerca disperatamente tracce di un passate che dovrebbe appartenerle e invece le sfugge, mettendo in forte dubbio la sua natura umana. E in fondo questo Resident Evil 6 – The Final Chapter diretto da Anderson potrebbe davvero essere definito perfetto paradigma della saga, essendo visibilmente scisso in due parti non sempre disponibili a dialogare compiutamente tra loro. Nella prima metà si assiste ad un incessante, straniante fragore di battaglia tra la resistenza guidata dalla nostra eroina e le moltitudini di zombie guidate dal terribile dottor Isaacs, perfido plenipotenziario della Umbrella Corporation nonché villain da operetta in quanto eccessivamente caricaturale. Un capitalista a tutto tondo – ma qualsiasi accenno, voluto o meno, all’ascesa al potere di un esemplare simile nella realtà statunitense si perde nel mare magnum di esplosioni e morti ammazzati – privo di etica, che vorrebbe infettare la Terra con un potente virus allo scopo di salvaguardarne l’integrità per pochi eletti. Tra i quali, ovviamente, lui stesso. Mentre la seconda parte, quella ambientata all’interno del cosiddetto Alveare sede della società, funziona bene sia perché ricicla furbescamente i trabocchetti dei capitoli precedenti, trasformando il luogo in una sorta di infinito tunnel dell’orrore, sia in quanto fa riemergere con discreto vigore quel dilemma identitario che affligge, non solamente al cinema, la società contemporanea globale. Alice cerca di comprendere la sua natura, Isaacs si moltiplica in svariati cloni, i buoni e i cattivi si mescolano tra loro e su tutto aleggia lo spettro di un’apocalisse imminente. Con una sola ancora di salvezza possibile.
A posteriori, insomma, si può definire il ciclo dedicato a Resident Evil come qualcosa di (leggermente) superiore al semplice intrattenimento in versione extra lusso, dove il profluvio di effetti speciali in visione stereoscopica non annulla del tutto la stimolazione delle cellule grigie. Anche se, in alcuni momenti di Resident Evil 6 – The Final Chapter, ci si va davvero molto vicini. La cosa non dovrebbe sorprendere, dato che Paul W.S Anderson è sempre stato più vicino ad un modus operandi fracassone e privo di evidenti sfumature alla Michael Bay ed epigoni, riuscendo però quasi sempre a mantenere il piede in più staffe contemporaneamente. Ragion per la quale anche Resident Evil costituisce un tipo di cinema perfettamente in possesso di una propria ragione di esistere.
Daniele De Angelis