Si salvi chi può
Parte da Roma il 10 novembre il percorso nelle sale di Mancanza – Purgatorio, con il film scritto e diretto da Stefano Odoardi che nell’arco delle prossime settimane farà tappa in alcune città italiane a caccia di pubblico, fortuna e consensi. Il cammino che aspetta l’opera non sarà però per nulla semplice, ma lungo e tremendamente tortuoso. Questo sicuramente il regista già lo saprà, cosciente che quello che ha firmato e che accompagnerà a braccetto nell’arco del tour distributivo, non è un prodotto audiovisivo di facile veicolazione e fruizione; di quelli non particolarmente adatti a un pubblico eterogeneo e generalista. Quella alla quale si rivolge l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Odoardi è una platea diversa da quella che abitualmente “affolla” le multisale, una platea composta da spettatori capaci e disposti a confrontarsi con un modo di fare e concepire la Settima Arte non canonico, “classico” e codificato. Insomma, quel tipo di cinema che nel nuovo DDL è identificato con il termine “difficile”.
Quest’ultima è forse, al di là che le calzi oppure no, l’unica “etichetta” che si può attaccare a un’opera che per natura e volontà del suo autore fugge, rifiutandolo, da qualsiasi tentativo esterno di identificazione attraverso un lavoro di schedatura e conseguente catalogazione in un genere piuttosto che in un altro, in un filone piuttosto che in un altro, in una macro-aerea piuttosto che in un’altra. L’assenza, in tal senso, non è mai ben vista dal pubblico e in particolare dagli addetti ai lavori che, a quanto pare, hanno assolutamente bisogno di dare un nome a ciò che si trovano a guardare di volta in volta, ma soprattutto sembrano dovere essere per forza di cose rassicurati su ciò che andranno a vedere sul grande schermo. Per Mancanza – Purgatorio questo potrebbe essere un problema abbastanza grande con il quale scontrarsi nel percorso in sala, ma a noi di CineClandestino piacciono le sfide e apprezziamo quei registi e quelle opere che decidono di prendersi i propri rischi uscendo dal recinto sicuro della facile classificazione. Di conseguenza, ci sentiamo di appoggiare quanto fatto da Odoardi nel suo nuovo film, attribuendo al risultato una meritata sufficienza, nonostante ci siano aspetti ed elementi di scrittura e tecnici che non ci abbiano convinto al 100%, a cominciare dall’eccessiva durata che mette seriamente alla prova la capacità di resistenza dello spettatore, anche quello abituato a confrontarsi con tempi dilatati, lunghi silenzi e staticità. A nostro avviso una riduzione della timeline di una quindicina di minuti, mantenendo inalterate le caratteristiche sopra indicate, aiuterebbe e non poco la causa; quanto basta per non mettere ulteriormente alla prova la resistenza anche di quegli spettatori ben disposti che hanno scelto di fruirne. Si avverte, infatti, un appesantimento a metà strada, legato principalmente alla ridondanza di certe situazioni e dinamiche più volte ripetute nell’arco narrativo. La stessa ripetitività ciclica presente anche nell’offerta e nell’elaborazione tematica di alcuni tempi trattati (l’amore, i legami familiari, lo scorrere inesorabile del tempo), oltre a quello centrale della mancanza e dello smarrimento.
Il tema centrale, al contrario, è affrontato con più sicurezza e attenzione. Ciò permette all’opera, secondo capitolo di un’interessante trilogia che ha come baricentro drammaturgico proprio la mancanza, di acquistare sostanza e solidità. Odoardi ci catapulta in un ipotetico Purgatorio Contemporaneo. Lì un Angelo naviga su un cargo che trasporta container in un viaggio verso l’ignoto, mentre un gruppo di esseri umani si trova in un non luogo in attesa della possibile salvezza. Per affrontare un tema così complesso e scivoloso, il regista punta sull’astrazione e non sulla narrazione, passando attraverso un tipo di cinema fortemente concettuale e mentale, che si alimenta di suggestioni, riflessioni ed emozioni. Nel caso di Mancanza – Purgatorio non c’è racconto né documentazione del reale, ma un flusso di concetti, parole ed emozioni che si susseguono in una dimensione metaforica, astratta e onirica.
Il tutto all’insegna della sperimentazione visiva e immerso in un bianco e nero che regala allo spettatore immagini poetiche e suggestive, come quelle notturne a bordo della nave cargo. La pregevole composizione delle singole inquadrature dimostra un certo gusto pittorico, ben supportato da un lavoro sul suono e sulle musiche davvero di buonissima fattura.
Francesco Del Grosso