Liberi di poter scegliere
Il cinema non avrà il potere di cambiare il mondo, ma sicuramente ha la capacità e i mezzi a disposizione per affrontare argomentazioni dal peso specifico rilevante e portare alla luce verità scomode. Ci sono opere la cui visione hanno provocato veri e propri tumulti scatenando accesi dibattiti e quella firmata da Reid Davenport, presentata nella sezione “Contemporary Lives” della 21esima edizione del Biografilm dopo l’anteprima mondiale al Sundance 2025, dove tra l’altro si è aggiudicata il premio speciale della giuria, è una di queste.
Il tema in questione, assai discusso, divisivo e complesso, che si intuisce dal titolo Life After è quello del suicidio assistito. Non è la prima volta che viene trattato e portato sullo schermo sia sul fronte documentaristico che da quello del cinema di finzione (da Mare dentro a Ultimo volo di ritorno, da Kill Me Please a Exit: il diritto di morire, passando per Bella addormentata, Plan 75 e Love is All. Piergiorgio Welby, Autoritratto), motivo per cui si pensa di avere le idee abbastanza chiare sull’argomento, eppure dopo avere visto questa pellicola la prospettiva potrebbe cambiare radicalmente.
Life After è un documentario investigativo appassionante che svela l’intricata rete di dilemmi morali e interessi economici che circondano il suicidio assistito. Il regista americano, a sua volta affetto da un grave handicap, porta alla luce scioccanti abusi di potere, dando voce alla comunità delle persone con disabilità, impegnate nella lotta per la giustizia e la dignità su una questione urgentissima. Davenport rivela l’intersezione tra i fallimenti del sistema e l’autonomia personale, mettendo in discussione l’idea che il suicidio assistito rappresenti sempre una scelta libera. A volte, può essere percepito come l’unica via possibile. L’autore porta avanti un’indagine personale in quanto personali sono anche le motivazioni che lo hanno spinto a interessarsi a un tema e a delle problematiche che lo riguardano da vicino. Il ché la rende utile e importante non solo per quelle persone che la vivono sulla propria pelle, ma anche per se stesso e il suo futuro. Ciò dona all’opera un’ulteriore spinta propulsiva che si traduce in un carburante motivazionale che porta l’opera e il suo autore a non scendere mai a compromessi in non di una causa che è al contempo personale e comune.
Life After parte rievocando una storia emblematica e ampiamente discussa come quella di Elizabeth Bouvia, affetta da artrite e paralisi cerebrale proprio come il regista, diventata figura chiave del movimento americano per il diritto alla morte. Il suo caso ha attirato l’attenzione a livello nazionale in quest’area così come in quella etico-medica. Ecco che Davenport ne ricostruisce prima l’esistenza e i fatti, comprese le battaglie legali portate avanti negli anni, per poi fare del caso della donna uno strumento utile alla sua inchiesta. Le toccanti interviste alle sorelle di lei e quelle ai parenti di altre persone (tra cui Michael Hickson) che si sono battute per fargli riconoscere il diritto alla morte rappresentano l’ossatura su e intorno alla quale il regista porta avanti la sua indagine sul campo, assistito dalla produttrice e avvalendosi di preziosi materiali di repertorio che ai fini dell’inchiesta vanno oltre il valore storico e testamentario per trasformarsi in prove schiaccianti sui diritti negati, sulle malefatte e sugli interessi economici nascosti dietro il suicidio assistito.
Life After è un documentario classico per quanto concerne la forma e il modus operandi presi in prestito dal modello di riferimento del film d’inchiesta, ma capace di addentrarsi e affrontare con convinzione e andando, senza indietreggiare mai di un passo, diritto al sodo e al nocciolo di una questione davvero complessa che avrebbe bisogno di tante altre opere come questa per essere analizzata nella maniera più corretta e chiara possibile.
Francesco Del Grosso









