Rapsodia nipponica
Altra chicca di un Future Film Festival 2021 assai movimentato e ghiotto, a livello di proposte cinefile, Le Mont Fuji vue d’un train en marche ci conduce su un terreno aspro ma che può arrecare notevole soddisfazione, almeno nelle sue vette più alte, quello riconducibile all’idea di cinema sperimentale. Il cineasta francese Pierre Hébert ha innanzitutto un legame forte e sincero con il Giappone. Due suoi viaggi nell’Arcipelago Nipponico, datati 2003 e 2018, gli hanno offerto lo spunto per un’opera sottile e poetica, in cui riprese dal vivo, animazione e calibrata alterazione del singolo fotogramma danno vita a un’opera magnetica, viva, finanche dadaista nel giocare con le forme, le storie e i colori.
Non si può negare che a tratti Le Mont Fuji vue d’un train en marche sia anche uno shock visivo. I ripetuti passaggi dal nero della pellicola, abitato peraltro da linee cangianti e da altre rigogliose geometrie, alle carrellate del paesaggio visto dal treno in corsa, possono creare un certo spaesamento e persino fastidio nello spettatore meno avvezzo. Questo però è solo uno degli elementi posti in gioco all’interno di un lungometraggio magmatico, visionario a tratti, che, pur trascendendole e isolandole all’interno dell’inquadratura, non trascura di certo quelle componenti storiche, geografiche e culturali del paese in cui si è recato l’autore. Da parte sua trapelano anzi affetto e vivo interesse. Anche qualora siano le ombre della Storia recente a prendere il sopravvento: immagini del Peace Memorial Park di Nagasaki, triste rimembranza dell’apocalisse atomica, si sovrappongono idealmente ai più recenti accenni all’incidente, anch’esso drammatico, devastante, di Fukushima. Una sorta di fil rouge iconografico che sa tanto di monito.
Il Giappone di Pierre Hébert è però anche estremamente vitale. La sua regia flirta persino col classico documentario di viaggio, tanti sono gli spazi e gli scenari attraversati: il tragitto in treno con il Monte Fuji sullo sfondo, per l’appunto, ma anche le vivaci scene del mercato, gli altri vulcani meno noti e le isole più piccole da raggiungere in traghetto, certe performance canore, teatrali o di danza d’impronta tradizionale o moderna.
Lo spirito delle avanguardie si sposa quindi alla perfezione con la volontà di esplorare un determinato contesto etnoantropologico. Con qualche sfizioso excursus, a latere, su un background culturale e artistico, di cui i ripetuti omaggi alle magnifiche opere di Hokusai sono il fiore all’occhiello.
Andando oltre la già luminosa superficie, è la stessa sintassi del film a parlare allo spettatore. Lo fa ad esempio introducendo prima il proposito di riprendere la sommità del Fuji dal finestrino di un treno, negandone successivamente la possibilità per via delle foschie che ne coprono a volte la cima, rifugiandosi poi nell’astrazione dello schermo nero e delle animazioni alternate con metodo ai paesaggi reali, per regalare infine un magnifico panorama del soggetto desiderato. Velare e poi svelare, un’altre delle infinite potenzialità del cinematografo e dell’arte in genere.
Stefano Coccia