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La perla della corona

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VOTO: 8

50 sfumature di carbon fossile

Le case, le pietre ed il carbone dipingeva di nero il mondo
Il sole nasceva ma io non lo vedevo mai, laggiù era buio
Nessuno parlava, solo il rumore di una pala che scava, che scava
Le mani, la fronte, hanno il sudore di chi muore
Negli occhi, nel cuore, c’è un vuoto grande più del mare
Ritorna alla mente il viso caro di chi spera
Questa sera come tante, in un ritorno

New Trolls, “Una miniera”

Forse meno noto in Italia di altri illustri conterranei, Kazimierz Kutz è in ogni caso un Maestro la cui filmografia ha lasciato in Polonia e nel mondo una traccia importante. A partire, volendo, dal peso avuto nella vita culturale di un territorio come la Slesia, che nel corso del Novecento è andato incontro a periodi a dir poco sofferti e problematici, dal punto di vista economico, politico e sociale. Notevole è pertanto l’impressione che può destare ancora oggi La perla della corona (Perła w koronie, 1971), sia nella sua dimensione prettamente locale, sia per quella indiscutibile valenza allegorica nel disporre come colori su tela i segni di una sempiterna lotta tra oppressi e oppressori.
Ecco, i colori. Ed è anche per via di un uso dei differenti, contrapposti cromatismi con ogni evidenza così significativo, emblematico, non soltanto quindi “illustrativo” ma determinante persino sul piano diegetico, che abbiamo particolarmente apprezzato la possibilità di rivedere sul grande schermo proprio quest’opera, tra le tante realizzate da suddetto autore, nei giorni che CiakPolska 2024 ha pensato di dedicare ai Grandi Classici del Cinema Polacco.

Pur non mancando, specialmente nei racconti dei più anziani, i riferimenti (talora persino giocosi, vedi il vecchietto che vorrebbe ritirare fuori un fucile malmesso e sparare come allora) alle rivolte del triennio 1919-1921, quando l’intera Slesia era ancora parte integrante della Repubblica di Weimar, La perla della corona fa diretto riferimento alle durissime proteste che la popolazione del posto portò avanti nel 1937, allorché i proprietari di origine germanica delle miniere Giesche (qui identificate come miniera Zygmunt) minacciarono per loro calcoli economici di chiuderle e abbandonarle, lasciando sul lastrico numerose famiglie della zona.
Attraverso la vicenda del minatore Jaś e della sua famigliola, vicenda paradigmatica ma al contempo strettamente connessa con quelle dei vari personaggi che rivivono sullo schermo, portando avanti tale lotta o cercando di ostacolarla, Kazimierz Kutz si affida proprio a cromatismi esasperati per rendere partecipe lo spettatore di tutto ciò che accade, non soltanto su un piano cognitivo ma anche sensoriale.
La vita che si snoda in superficie corrisponde infatti a un mondo diurno, solare, che si tinge di frequente dei colori della festa e del folklore locale, quasi come se fossimo in uno dei celebri spettacoli del collettivo musicale Mazoswe. Qualcosa di analogo, volendo, al gusto pittorico sperimentato in più occasioni da Sergej Paradžanov, grande cineasta armeno ugualmente innamorato dei colori. Al contrario, gli accadimenti che si susseguono nella miniera occupata dai lavoratori corrispondono in un certo senso a “cinquanta sfumature di grigio” che s’incupiscono sempre più, diventano plumbee, nerissime, innervate giusto da sinistri bagliori rossastri, come a evidenziare la dimensione “infera” affrontata fino all’estrema consunzione fisica, mentale e spirituale dalle decine di minatori in sciopero. Al termine del racconto, pur trionfanti, riappariranno alla luce del sole come una legione di zombi o di figure spettrali.

Da tale dicotomia esce fuori un film visivamente potente, corale, maestoso, intenso drammaturgicamente ma non privo di quei lampi di ironia, che si fanno ad esempio apprezzare nelle arzille apparizioni dei vecchietti o nel ménage famigliare di Jaś, dell’adorabile moglie e dei due pargoletti; con la scena del lavaggio dei piedi e le piccole baruffe a tavola, trasformate in gag scanzonate dall’impronta deliziosamente slapstick.

Stefano Coccia

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