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I’m Really Good

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VOTO: 8

I bambini si guardano

Appare scontato ribadirlo ancora e ancora, ma la Settima Arte di provenienza asiatica si conferma una volta di più un contenitore assoluto di cinema declinato nelle modalità più svariate. Il giapponese Hirobumi Watanabe – regista di I’m Really Good, presentato al Far East Film Festival 2020 – catapulta lo spettatore in un’altra dimensione stilistica rispetto alle visioni convenzionali, ricercando la spontaneità assoluta attraverso una messa in scena assieme assai ricercata ma dalla semplicità scarnificata sino all’osso. Fulgido bianco e nero, a ricordare – in digitale – la fotografia di un Robby Müller delle feconde opere firmate da Jim Jarmusch. Poi il soggetto filmico, cioè una bambina di nome Riko, immortalata in una giornata come tante altre all’apparenza insignificante, ma in realtà estremamente formativa nella sua normalità. Il cinema, dunque, ossessionato dalla realtà, dalla vita fissata in immagini durante il proprio fluire. Eppure Watanabe arricchisce il suo film di sottotesti quasi impercettibili eppure ben presenti. Come quando mostra la distonia irrisolvibile tra la semplicità della vita di Riko nella campagna dove abita, fatta di una routine che appaga l’animo, e le complesse astrusità della politica, quando sullo sfondo sonoro si ascolta un discorso in parlamento del premier nipponico Shinzo Abe, il quale snocciola asetticamente le cifre dell’economia di quel paese. Un distacco simbolico tra due dimensioni esistenziali differenti illustrato con l’essenzialità dei grandi registi.
Un’opera come I’m Really Good dimostra che, nelle strade infinite del cinema, tutto torna e tutto può essere soggetto a reinvenzione. I pedinamenti neorealistici tanto cari a Cesare Zavattini si mescolano a certo cinema “ad altezza bambino” di Hirokazu Kore-eda, magari con minori pretese autoriali ma con il risultato di fornire uno squarcio di vita impossibile da sottovalutare proprio per l’intrinseca verità che contiene al proprio interno. Tutto sembra improntato alla massima casualità – compresi i momenti di nero sugli stacchi di montaggio – ma non lo è. Il film di Watanabe rappresenta un piccolo trattato filosofico sulla ineluttabilità della crescita, mediante fatti ad una lettura superficiale irrilevanti ma che sommati vanno a costituire il prossimo dna adulto di qualsiasi individuo. Un racconto minimalista ricco di momenti buffi, grazie anche alla presenza attoriale dello stesso regista che si ritaglia la parte di un truffaldino venditore di libri scolastici porta a porta, prontissimo al dietrofront allorquando scopre che il papà di Riko di mestiere fa il poliziotto. Quasi un ammonimento implicito di Watanabe sulla valenza morale di momenti dell’infanzia che vanno a sommarsi in quello che potrebbe considerarsi un prezioso bagaglio di esperienza in futuro.
Nella sua brevità – poco più di un’ora di durata – I’m Really Good possiede l’indubbio merito di favorire un processo universale di immedesimazione, affrontando aspetti capaci di toccare le corde emotive di chiunque conservi il ricordo infantile di un mondo ancora tutto da scoprire. Le distanze da percorrere che sembrano lunghissime a sguardo di bambina, l’amicizia con una coetanea, l’importanza di cercare un dialogo ed un confronto anche con il mondo degli adulti. Il film di Watanabe possiede la purezza di un fiore in fase di sboccio, benissimo supportato da un cast eccellente, capitanato ovviamente dalla piccola Riko Hisatsugu, la quale non a caso mantiene nel film il proprio nome di battesimo. E quando cinema e realtà finiscono con il mischiarsi ad arte, il risultato non può che essere di notevole interesse. Anche a costo di deludere gli habitué del cinema narrativo a tutti i costi.

Daniele De Angelis

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