Lost in Translation
L’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che lo ha voluto nella sezione Orizzonti, ha fatto scoprire ai più attenti un nuovo autore, l’ennesimo rappresentante di una cinematografia particolarmente viva come quella iraniana. Stiamo parlando ovviamente di Ali Asgari e del suo esordio al lungometraggio, Disappearance (Napadid shodan). Va subito evidenziato che una delle prerogative di questo giovane cineasta è il legame strettissimo con l’Italia. Proprio girovagando per alcuni festival di cortometraggi italiani avevamo scoperto i suoi precedenti lavori, corti dall’impronta formale molto ben definita come Barbie (2012), More Than Two Hours (2013) e La bambina (2016). Ad esplicitare maggiormente la crescita dell’autore è sopraggiunto poi, nel 2016, un altro cortometraggio intitolato Il silenzio, diretto a quattro mani con la connazionale Farnoosh Samadi e frutto di una co-produzione tra Italia e Francia. Ed è proprio di questo lavoro breve ma di notevolissima intensità che vorremmo parlarvi più approfonditamente, sia per certi elementi di contiguità tematica col successivo Disappearance, sia perché qui la metodica costruzione stilistica tipica delle regie di Ali Asgari ci è parsa completamente al servizio dei personaggi, delle loro più intime e sofferte vicende.
Anche ne Il silenzio, come in Disappearance, le corsie e le sale d’aspetto di una struttura ospedaliera vengono a costituire l’epicentro fisico ed emotivo di un racconto che fa uscire allo scoperto delicati rapporti umani. Se però nel lungometraggio la cornice sarà poi rappresentata da un forte contrasto dialettico tra vecchie e nuove generazioni, nell’Iran di oggi, il corto punta invece i riflettori sulle più sottili implicazioni di un altro difficile dialogo, contiguo per giunta alla nostra esperienza.
È infatti una dottoressa italiana, interpretata da una assai convincente Valentina Carnelutti, il personaggio cui spetta il gravoso incarico di informare del suo cattivo stato di salute una non più giovane rifugiata curda, accompagnata in ospedale da una bambina, sua figlia. Ma all’imbarazzo della dottoressa si sovrappone ben presto un sentimento ancora più increscioso, opprimente, perché la straniera si esprime solo nella propria lingua e la bambina in mancanza di altri deve farle da interprete. Parlare alla propria madre di un tumore non è però facile, questo lo sa bene anche la dottoressa.
Ali Asgari e Farnoosh Samadi riescono qui nel piccolo miracolo di azzeccare sempre i tempi del racconto, pedinando i protagonisti con accortezza prima e dopo la visita, senza sprecare neanche un’inquadratura ma giocando al contrario su porte socchiuse, movimenti di macchina essenziali, prossemiche dei corpi (e degli sguardi) di rara finezza. Tutto ciò rende il classico gioco del “lost in translation” quanto mai vivo ed umano, facendo sì che Il silenzio scivoli silenziosamente, per l’appunto, nel cuore dello spettatore.
Stefano Coccia