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Il palazzo

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VOTO: 8.5

Diario di un’assenza

L’esplorazione del cinema di Federica Di Giacomo, iniziata il 17 luglio con la duplice proiezione di Liberami e Il lato grottesco della vita – accompagnata peraltro da un lungo incontro con l’autrice -, ha avuto un seguito venerdì 18 luglio, quando è arrivato il turno de Il palazzo. Con ogni probabilità è questo l’approdo connotato dalla più alta intensità emotiva, nella sfaccettata filmografia della documentarista. Anche perché ruota intorno a una dolorosa essenza. Epicentro del film è Mauro, amico della cineasta con velleità da regista sperimentale e con un carisma tale da avergli consentito, negli anni, di coinvolgere svariati sodali nelle riprese di film che, però, non arrivavano mai al termine del montaggio e quindi a una forma definitiva. Il povero Mauro, visibilmente appesantito e minato nel fisico dall’aggravarsi di alcune patologie, è poi prematuramente scomparso, lasciando un vuoto evidente. Sia nelle vite degli amici di sempre e della fidanzata, sia in quel caotico groviglio di immagini nato da singolari spinte creative, cui è mancato forse solo quel tanto di concretezza, di risolutezza e di fiducia in se stessi necessario a siglare un’opera compiuta.

Finito e non finito. Questo è l’orizzonte epistemologico in cui si collocano tanto l’ambizione artistica di Mauro che le esistenze, parimenti irrisolte, dei suoi conoscenti ed amici. Come a rendere omaggio a quello che potremmo tranquillamente considerare un grande talento inespresso, rimasto allo “stato di potenza”, Federica Di Giacomo tesse post mortem un ordito in cui spezzoni dei film di Mauro s’alternano sullo schermo alle vite di chi gli è sopravvissuto, vite spesso in balia di uno sbandamento esistenziale e di un’incertezza cronica che trovano, quasi magicamente, il loro rispecchiamento ideale nelle scene dal taglio fieramente anti-borghese, surrealista, provocatorio, dadaista, che il defunto amava riprendere. E sebbene in forma di puro innesto meta-cinematografico, la sua idea di cinema indipendente e di ricerca, tutt’altro che banale, trova così una postuma celebrazione.
Coppie che fingono una cena le cui portate sono altrettanti vinili. Audaci nudi femminili. Primissimi piani dal piglio urticante e introspettivo. Dialoghi da teatro dell’assurdo. Questi spezzoni rendono l’idea di una poetica appena abbozzata e mai portata a compimento, di cui si intravvede però tutta la potenziale, lancinante profondità. E quando è l’autore stesso, giovane e piacente, a riempire con orgoglio l’inquadratura, il girato stesso assume le sembianze di un ectoplasmatico “Ritratto di Dorian Gray”; specie se si considera l’impietoso ma sempre onesto confronto con gli ultimi filmato che ritraggono invece Mauro malato, sfatto, reso finanche obeso dal male che lo ha colpito e dai conseguenti trattamenti medici.

Meta-cinema che assorbe e rielabora differenti forme dell’immaginario, Il palazzo si nutre poi degli umori colti dall’autrice nella palazzina del centro di Roma, dove Mauro viveva e accoglieva generosamente gli amici. Le loro parabole esistenziali sono altrettanto emblematiche. La regista, nel raccoglierle in un collage di umbratili stati d’animo, sentimenti espressi solo parzialmente, atteggiamenti di natura esibizionista, velleitari progetti di vita e quant’altro, dà luogo qui come in altre sue opere a uno spaccato antropologico gravido di intuizioni. Un po’ come se tra malinconiche commemorazioni dell’amico scomparso, libri mai conclusi e fotografie recuperate dagli scatoloni, un controcanto minimalista de La grande bellezza di Sorrentino affiorasse sommessamente sullo schermo.

Stefano Coccia

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