Costellazione opaca di una fiaba “sbilenca” tra reality e realtà indivisibili
‘Na stella che forse non si può vedere. Una canzone che forse non si può ascoltare. E’ il rumore di fondo e lo splendore opaco, dentro Il cratere. Un reality di indivisibili passioni e illusioni per il primo lungometraggio di fiction della coppia Silvia Luzi-Luca Bellino, da “provare per credere”, Rosario e il suo carrozzone, Sharon e le sue note acute, acerbe, bellissime. Una stella e la sua costellazione opaca. Una canzone dentro un baratro, quella che scrivono e realizzano, dopo tanti documentari e una carriera solida e ormai riconosciuta, gli autori e produttori de Il cratere, vincitore, tra gli altri premi, del Premio della Giuria capitanata da Tommy Lee Jones, per il Tokyo International Film Festival 2017.
Rosario gestisce un’impresa ambulante su quattro ruote, alle quale lavora alacremente tutta la numerosa famiglia, regala pupazzi di peluche a chi vuole comprare un biglietto per pochi euro nella messe di luci calore e desiderio ansimante, in giro per le piazze italiane, più o meno a sud dello stivale tricolore. Sua figlia tredicenne Sharon, talento musicale grezzo ma scioccante, e poca pazienza ancora per usarlo, è la sua arma e il suo malfermo tentativo di lotta e resurrezione in un mondo della meraviglie ingannevole e distorto, dal quale Rosario vorrebbe emergere. Mentre Sharon, aggrappata ancora ai trastulli di una ragazzina, galleggia, facendosi convincere, tra videogiochi, televisione spazzatura e retrobottega, tanto con le buone a volte, quanto spesso con una burrascosa insoddisfatta voce grossa del padre, a registrare canzoni, a caro prezzo. Tra giostre, aerosol, litigi e telecamere nascoste, Rosario, Sharon e compagnia, sono rinchiusi nel mondo sorvegliato e stanco della loro vita. Sharon presta il suo sogno al padre o è forse il padre che tenta di infonderlo inutilmente alla figlia, sogno che in realtà è espediente per salvarsi dal cratere, dalla miseria degli avanzi quotidiani e dei sacrifici picareschi, ma anche il baluardo ultimo e l’unica giustificazione per una vita che non sa o non può cominciare mai.
Un’istantanea potente ma a tratti illeggibile, perduta, amorfa, forse volutamente, di una costellazione che non riesce e brillare, a detta stessa degli autori una “favola sbilenca”, riarrangiata proprio come un brano, dai suoi stessi protagonisti. Una forma nuova e ibrida di finzione e verità. Il cratere non mostra la sua fisionomia, mai, si stende e si comprime, pulsa irregolare, terra sconfinata di incertezza dove parassitano inconsistenti i sogni mentre ruggiscono bisogno, sussistenza, vagabondaggio indolente, autoalimentata impossibilità ad uscire da quel mondo stagionale che è abitudine perenne, dove la musica, quella melodica dialettale che al sud impazza, è leit motiv e àncora, arma di lotta e scusante, scudo collettivo, droga e scacciapensieri di un popolo che non conosce altra identità e forse non la cerca.
Fiaba contemporanea, vissuta con i protagonisti ma non completamente “dei” protagonisti, che con Luzi e Bellino hanno scritto la sceneggiatura ridando forma alla propria esistenza. Favola che si dichiara prima di iniziare, quando sui titoli del film Sharon ripete la lezione sul verismo verghiano tra memoria letteraria e memoria coreografica. Limbo dove prende piede e insieme veri e propri passi, una danza ininterrotta di campi strettissimi, appunto indivisibili, nella quale lo spettatore è pressato contro gli occhi, le bocche e le mani dei protagonisti impigliati come insetti kafkiani, l’uno e gli altri, nella dimensione sospesa e depressa del cratere.
“Provare per credere signori”.
Sarah Panatta