Una perfetta messa in scena
Roald Dahl è forse uno degli scrittori dell’infanzia più noti e letti di tutto il Novecento. Tuttavia, una parte meno nota, ma comunque consistente della sua produzione, riguarda invece una letteratura indirizzata ad un pubblico adulto. Ne fanno parte i racconti: Veleno, Il Cigno, La meravigliosa storia di Henry Sugar e Il derattizzatore; compresi in diverse raccolte pubblicate tra gli anni Quaranta e Settanta e trasposti per Netflix dal regista Wes Anderson in una serie di tre cortometraggi ed un mediometraggio (Henry Sugar). Il regista, tornando a adattare un testo letterario, crea una serie di opere che appaiono fortemente legate e contigue per atmosfere e messa in scena. Quella alla quale ci troviamo di fronte è, a nostro parere, una selezione dei racconti di Dahl curata da Anderson per i tipi di Netflix. Il regista conferma di essere un metteur en scéne di raffinato talento visivo. La sua estetica, fatta di spazi organizzati con rigore geometrico, colori primari ed atmosfere rarefatte, qui si fonde con una dimensione teatrale nella quale la struttura del set diventa palese fino ad assumere una parte importante nell’organizzazione dello spazio e nello stabilire l’atmosfera del racconto. Con i cambi-scena a vista, così come alcuni cambi-costume degli interpreti, la quarta parete viene del tutto abbattuta. A questo contribuisce la scelta registica di rinunciare alla voce narrante fuori campo e di affidare ai personaggi di descrivere essi stessi le loro azioni. Un espediente invero non completamente originale. Potremmo citare a proposito l’allestimento teatrale del 1997 per la regia di Luca Ronconi di Quel pasticciaccio brutto di Via Merulana. Ciò nondimeno, le opere appaiono fresche e godibili. Riuscendo, inoltre, a creare un’atmosfera intima per lo spettatore, che si sente quasi trasportare in un vero e proprio teatro allestito solo per lui. Merito anche di un cast ridotto ma di indiscutibile valore, a cominciare da un Ralph Fiennes sempre impeccabile e che qui interpreta anche lo stesso Dahl, per poi proseguire con gli altrettanto notevoli Benedict Cumberbatch, Dev Patel, Ben Kingsley. Tutto questo per mano di un autore che negli ultimi tempi ha spesso dovuto affrontare l’accusa di essersi oramai avvitato in una spirale di manierismo autoreferenziale. Un’accusa che appare assai poco fondata dopo la visione. Nell’adattare questi lavori meno noti di Dahl, Wes Anderson dimostra di non avere perso il suo gusto ed il suo talento narrativo, ma, piuttosto, di essersi avviato verso un percorso di ricerca personale volto ad una sempre maggiore purezza e levigatezza del racconto. Un percorso nel quale l’incontro con lo scrittore inglese, autore capace di celare sotto una superficie spensierata racconti di spietata nerezza e già praticato con Fantastic Mister Fox, appare come una felice unione tra due creatori che si distinguono per riuscire ad arginare il vortice delle loro storie entro argini ben precisi ed invalicabili. Cosa che ad una prima vista li fa apparire eccentrici. Ma ad una seconda li mostra come due maturi e consapevoli narratori, capaci di affascinare e attraverso il contenuto e attraverso la forma.
Luca Bovio