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L’angelo del crimine

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VOTO: 6.5

Il biondo dal grilletto facile

Oltre all’esito sul grande schermo, che il pubblico italiano potrà vedere con i propri occhi quando la pellicola uscirà nelle sale nostrane l’anno che verrà con Movies Inspired, erano molti i motivi d’interesse che hanno preceduto la presentazione di El ángel (nella titolazione italiana L’angelo del crimine) nella competizione della 28esima edizione del Noir in Festival 2018, laddove arrivava sulla scia di una serie di proiezioni in vetrine di prestigio come Cannes, San Sebastián e Toronto. Tra questi c’erano in rapita successione la designazione come candidato argentino alla corsa alla statuetta per il miglior film straniero alla prossima notte degli Oscar (anche se difficilmente a nostro modesto parere riuscirà a strappare un posto nell’agognata cinquina visti i contendenti), la presenza tra i produttori di Pedro Almodóvar e la prova dietro la macchina da presa di colui che la firmata, ossia il talentuoso Luis Ortega. Ma più di ogni altra cosa ciò che maggiormente ci premeva constatare era come narrativamente e drammaturgicamente l’autore, qui al suo settimo lungometraggio, avesse raccontato la storia di una figura ambigua e controversa come quella di Carlos Robledo Puch che, ad oggi, con oltre quarantacinque anni di detenzione alle spalle, è il prigioniero ad aver scontato la pena più lunga in carcere nella storia dell’Argentina.

Accusato di più di quaranta furti e undici omicidi, Puch con le sue gesta malavitose si era guadagnato il soprannome di “Angelo della Morte” proprio per l’aspetto innocente e il contrasto tra la bellezza angelicata e l’efferatezza dei suoi crimini, che lo hanno reso oggetto di un’attenzione mediatica enorme dandogli in poco tempo una grande celebrità. Un criminal-profiling e un identikit i suoi decisamente complessi da riassumere a parole, figuriamoci sul grande schermo. Dunque, quello del regista argentino non era un compito facile, perché facile non era per nulla riuscire a restituire sullo schermo una personalità così camaleontica e sfuggente come quella del protagonista. E in effetti, proprio a causa del livello di difficoltà oggettivamente elevato, Ortega e la sua ultima fatica dietro la macchina da presa sono riusciti solo in parte a portare a termine la missione. Ciò che il film è stato in grado di fare sulle tante cose e varianti in gioco è l’avere saputo rappresentare l’antitesi che ha caratterizzato il protagonista, il cui aspetto così innocente andava a cozzare con l’efferatezza glaciale delle sue azioni. E per farlo, il cineasta ha avuto bisogno in primis di un attore capace fisicamente ed emotivamente di identificare un aspetto che poi era cruciale. Fortuna per lui e per il film tali caratteristiche è riuscito a trovarle in Lorenzo Ferro che attore professionista non lo era e che lo è diventato proprio per dare corpo e voce al clone cinematografico di Puch. Senza di lui, senza la sua efficacissima performance probabilmente ora la situazione sarebbe stata ben diversa. L’esordiente giovane interprete, del quale sentiremo sicuramente parlare in futuro e che speriamo di rivedere presto sullo schermo per capirne i reali valori, è infatti uno dei punti di forza dell’operazione insieme alla regia di chi lo ha scoperto e diretto. Lo stile elegante e al contempo pop della messa in quadro crea un mix davvero interessante, che aiuta il film a ricostruire attraverso le immagini la dimensione discordante, alterata e disomogenea nel quale si sono concretizzati i fatti. La pellicola, infatti, non è disturbante o sanguinolenta nella messa in scena quanto si potrebbe immaginare visto la storia che è stata chiamata a raccontare. In tal senso, Ortega non trasfigura la violenza, ma lascia tutte le volte la vittima o le vittime di turno fuori campo soffermandosi con l’inquadrature sulle reazioni di chi le compie. Ne vediamo il sangue proiettato sulle superfici o sui corpi, ma mai l’esecuzione in primo piano. Una scelta ben precisa che va decisamente controcorrente rispetto alle biografie criminali e ai serial-thriller arrivati sul piccolo e grande schermo.

Per il suo El ángel, Ortega ha deciso di riavvolgere le lancette dell’orologio riportandoci nella Buenos Aires del 1971, quando Carlitos, riccioli biondi, una faccia d’angelo e una spavalderia da stella del cinema, di anni ne aveva diciassette. Sin da piccolo ha sempre desiderato le cose degli altri, ma è solo da adolescente che la sua naturale inclinazione al furto si rivela. Quando incontra Ramon a scuola, Carlitos è immediatamente attratto da lui e fa di tutto per mettersi in mostra. Insieme intraprendono un viaggio alla scoperta dell’amore e del crimine. Un viaggio fisico e solo in parte interiore che il regista ricostruisce in una manciata di capitoli di un biopic parziale che ha nel proprio DNA i geni riconoscibili del romanzo di deformazione e del dramma esistenziale. Da questo punto di vista, il film è la storia di un adolescente che spinge il proprio modo di fare troppo oltre, fino ad arrivare a un punto di non ritorno. El ángel parla di questo: dell’impazzimento dell’innocenza e lo fa in modo del tutto personale, seguendo traiettorie che ci riportano se volete e ce lo concedete all’Alex di Paranoid Park. Ed è questo aspetto che ci ha più convinti dell’opera in questione.

Diversamente, ce ne sono altrettanti che lo hanno fatto di meno, tanto da portare il nostro giudizio appena sopra la sufficienza. Ciò che non convince di El ángel è il modo in cui la scrittura racconta altri aspetti chiave della vita di Puch, semplificandoli quando al contrario avrebbero dato ancora più concretezza al disegno del personaggio, aiutando lo spettatore ad entrare ulteriormente nel suo mondo. L’omosessualità di Carlitos ad esempio qui viene ridotta ad una postilla, raccontata solo a margine di un discorso più ampio che ha tralasciato anche altri aspetti psicologici importanti che ci avrebbero guidati ancora più in profondità. Ovviamente, El ángel è un film e in una timeline di due ore piene è impossibile dire e raccontare tutto, ma forse il soffermarsi su certi aspetti ci avrebbe fatto capire qualcosa in più di un adolescente dal grilletto facile e maledettamente ammaliato dal fascino irresistibile del male. Tali mancanze a conti fatti si sentono e riportano il tutto su rotte sicure.

Francesco Del Grosso

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