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Displaced

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VOTO: 7

Ping pong balcanico

Tanto Kosovo, alla trentatreesima edizione del Trieste Film Festival. Ovvero una propaggine di quella vocazione ad autorappresentarsi, in un momento di transizione senz’altro delicato, che ha finito per generare emozioni forti anche tra gli spettatori della kermesse triestina, stando ai numerosi premi raccolti sia da questa giovane cinematografia che da opere comunque realizzate in tali territori. Dell’elenco fa parte di diritto il Premio Cineuropa al miglior lungometraggio in concorso, andato a Looking for Venera (Në kërkim të Venerës) di Norika Sefa. Ma per certi versi, sempre tra i lungometraggi, andrebbe citato pure Mrak di Dušan Milić (Oscurità, Serbia – Italia 2021): controcampo dolente e necessario sui traumi lasciati dalla guerra in Kosovo, in cui è però la parte serba a esprimersi.

Neanche tra i corti certe presenze sono passate inosservate, per cui annotiamo volentieri che in una sezione quest’anno particolarmente generosa, sotto il profilo qualitativo, il Premio Fondazione Osiride Brovedani assegnato dalla giuria (Špela Čadež, Gerald Weber, Wim Vanacker) al miglior cortometraggio in concorso (euro 2.000) è andato proprio a Displaced  (Pa vend, Kosovo 2021) di Samir Karahoda, con la seguente motivazione: In un film che mescola documentario e finzione, una tavola da ping-pong diventa un’allegoria di condizioni politiche ma anche una metafora della ricerca di luoghi sicuri in un periodo caratterizzato da sradicamenti e migrazioni. Pa Vend ci ha convinti in virtù della correttezza delle sue scelte formali, con inquadrature singolari, uno sguardo concentrato e ritmo preciso.

Continuiamo a pensare che fosse davvero difficile decretare un vincitore, in questa edizione che tra i cortometraggi di lavori validi, anche italiani, ne ha proposti parecchi. Ad ogni modo Pa vend è uno dei corti che ha maggiormente colpito anche noi.
“Da un posto all’altro”, la possibile traduzione italiana del titolo. E difatti vediamo migrare quei tavoli da ping pong non supportati da una federazione forte attraverso una serie di “location” improvvisate, che vanno da una chiesa a una specie di garage e a una di quelle sale da ricevimento per pranzi di nozze et similia, poco utilizzate in certi periodi dell’anno. Oltre all’arte di arrangiarsi dei protagonisti (e ad alcuni loro discorsi dall’impatto sociale non irrilevante, specie quelli sulla piaga dell’emigrazione verso nazioni più ricche) a farsi apprezzare è proprio il carattere straniante delle inquadrature, da cui si susseguono piccole, deliziose epifanie.
Col risultato aggiuntivo di generare simpatia intorno a uno sport, il tennistavolo, dalle notevoli potenzialità cinematografiche ma in fondo poco rappresentato sul grande schermo. Tra i pochi titoli che ci vengono ora in mente vi è il diversissimo, in quanto iperbolico e fumettistico, ma parimenti godibile lungometraggio realizzato dal giapponese Fumihiko Sori nel 2002: Ping Pong, basato peraltro sul manga omonimo di Taiyō Matsumoto. E che la pallina adesso passi ad altri!

Stefano Coccia

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