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Monica Vitti, una storia d’amore

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Attrice, donna, persona

Era già particolarmente arduo immaginare una Monica Vitti – da tempo lontana dalle luci della ribalta – appena novantenne, inevitabilmente segnata dagli anni e dalla malattia. Figuriamoci pensare alla sua scomparsa, annunciata ieri dal marito Roberto Russo per interposta persona, attraverso un tweet di Walter Veltroni. Eppure è accaduto. Il tempo è passato, portandola via con sé. Lasciando una sensazione di vuoto che solamente lo scorrere dei giorni saprà, forse, quantificare con una certa esattezza. Perché Monica Vitti non era un’artista qualunque. L’unico suo “vezzo”, definiamolo impropriamente così, era proprio il nome d’arte. Lei che all’anagrafe era registrata come Maria Luisa Ceciarelli. Un nome che corrispondeva perfettamente alla sua romanità. Un’attrice il cui immenso talento riverberava in una fulgida bellezza da donna “normale”, la persona della porta accanto alla quale chiedere in prestito qualcosa nelle emergenze.
Monica Vitti, è quasi inutile sottolinearlo in questa sede, è stata probabilmente l’attrice più importante della storia del cinema italiano, assieme ad Anna Magnani. Con la sostanziale differenza di non aver avuto una carriera hollywoodiana, con tutte le conseguenze, positive e negative, che tale scelta avrebbe magari comportato. Monica Vitti ha avuto dalla sua una formidabile coerenza, la stessa che l’ha condotta a vivere gli ultimi decenni della propria vita in un appartato riserbo. Totalmente anomalo in un periodo nel quale l’apparire riveste un’importanza infinitamente maggiore dell’essere. In fondo, possiamo intepretarlo così, si è trattato dell’ennesima dichiarazione d’amore nei confronti dell’Arte che ne ha fatto conoscere il nome. In modo similare ad un nume della Settima Arte del calibro di Roberto Rossellini, anche per lei vita e cinema si sono intrecciati in maniera indissolubile. Attrice fondamentale per Michelangelo Antonioni nel trittico L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962) non solo ha lasciato trasparire con bravura inusitata tutti i malesseri borghesi illustrati impietosamente dal Maestro culminati infine nel memorabile Il deserto rosso (1964); ma con lui ha anche intessuto una intensa storia sentimentale. Lo stesso è avvenuto con Carlo Di Palma, celebre direttore della fotografia “woodyalleniano” e non solo, il quale tra l’altro la diresse in tutte e tre le opere di finzione da lui firmate come regista: le variegate commedie Teresa la ladra (1973), Qui comincia l’avventura (1975) e Mimi Bluette.. fiore del mio giardino (1976). Senza dimenticare il suo ultimo compagno di vita, il marito Roberto Russo, a propria volta regista per il quale la Vitti ha recitato nell’interessante Flirt (1983) e nel meno riuscito Francesca è mia (1986).
Già da questi titoli si evince chiaramente il fatto che Monica Vitti avrebbe potuto recitare qualsiasi ruolo, risultando sempre massimamente credibile. E anzi conferendo una dignità estrema ad opere che, interpretate da altre attrici, magari non avrebbero avuto la medesima risonanza. Non è tutto. Grazie a lei i ruoli femminili, soprattutto nella classica commedia all’italiana di altro grado “nobiliare”, sono passati da contorno a primo piano. Come dimenticare, ad esempio, le sue performance a fianco di un mattatore indiscusso come Alberto Sordi, da lei affiancato in alcune delle sue migliori prove (anche) registiche? Duetti musicali scolpiti nella memoria cinefila (Polvere di stelle, 1973) ma anche grotteschi, lunghissimi, confronti fisici (Amore mio aiutami, 1969) a raccontare momenti di cambiamento della società italiana.
Tanto, troppo ci sarebbe da ricordare, a proposito di Monica Vitti. Icona irripetibile che avrebbe potuto diventare diva ed invece ha scelto, consapevolmente, il percorso opposto. Per continuare ad essere se stessa fino alla fine, in un mondo nel quale perdere il senso dell’orientamento è la cosa più facile che possa capitare. Anche per questo – come accadde con la ridicola notizia di marca francese della sua morte per suicidio anni addietro – se fosse stata in vita Monica Vitti si sarebbe fatta un paio di sonore risate alla lettura dell’incommentabile gaffe giornalistica che le assegnava il ruolo di protagonista femminile in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto (1973) dell’anche essa recentemente scomparsa Lina Wertmüller, in luogo di una Mariangela Melato a cui la accomunava la capigliatura bionda. Forse, alla fine della fiera, era proprio ciò che Monica Vitti avrebbe desiderato: essere confusa nella folla, antidiva per eccellenza. Persona tra la gente comune. Una di noi, capace di amare svisceratamente il cinema senza per questo trascurare noi stessi e la realtà che ci circonda.

Daniele De Angelis

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