Solo in mezzo alla gente
C’è molto della vita privata e professionale di Jan Těšitel nella sua opera prima dal titolo David, presentata in anteprima al Festival di Karlovy Vary e ora in concorso alla 52esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove una pioggia funesta ne ha interrotto la proiezione serale nell’arena di Piazza del Popolo. Film bagnato, film fortunato? Staremo a vedere se sarà di buon auspicio oppure no, ma per quello dovremo aspettare la cerimonia di premiazione il prossimo 9 luglio. Nel frattempo, la mattina seguente siamo riusciti a recuperalo grazie a una replica speciale, stavolta al riparo da ulteriori brutti scherzi, in quel del Cinema Sperimentale.
Parentesi metereologica a parte, capita spesso di imbattersi in registi che, indipendentemente dalla provenienza e dal modo di approcciarsi alla Settima Arte (genere, stile e via dicendo), riversano nei propri film esperienze, emozioni, vicende, trascorsi e ricordi personali. Che lo abbia fatto anche l’esordiente cineasta ceco, classe 1982, non è dunque una novità particolarmente rilevante. Rilevante è, invece, il fatto che ciò che ha deciso di imprimere sulle pagine della sceneggiatura prima e sullo schermo poi, che è stato un momento chiave del suo vissuto, si tramuti in un fattore senza il quale il racconto e il personaggio che lo anima non riuscirebbe a toccare tutte quelle corde emozionali che invece riesce a suonare. Per farlo, Těšitel si è ispirato a un fatto autobiografico (la fuga di suo fratello), rielaborandolo nella storia universale di un personaggio che soffre per l’impossibilità di vivere una vita normale. Tutto si riversa nel disegno del personaggio di David, nome di battesimo del protagonista dell’omonimo film del cineasta ceco, quello di un ragazzo affetto da un disturbo mentale, che soffre della propria situazione e della crescente stanchezza che vede nei genitori e nel fratello. Quando la vita in famiglia diventa insostenibile, il ragazzo decide di scappare a Praga con pochi soldi in tasca. Nella grande città, per la prima volta fuori dal protettivo ambiente domestico, David sperimenterà una solitudine ancora più profonda e dovrà confrontarsi con i propri pensieri ed emozioni, fino a un punto di non ritorno.
David è un dramma che guarda in faccia lo spettatore, che parla di qualcosa che può riguardare in un modo o nell’altro, direttamente e indirettamente, ciascuno di noi. Prima di essere un film sul disagio mentale di un ragazzo come tanti, può e deve essere letto come un racconto sulla solitudine, sull’incomunicabilità e sull’isolamento; condizione che in una Società come quella odierna, brutale, spietata e indifferente, si è tramutata in un abisso senza fine, dove tutti – prima o poi – sono costretti a immergersi. Il protagonista della pellicola di Těšitel si trova a viverla prima tra le ostili mura domestiche, poi lontano da esse, a dimostrazione che si può essere soli anche in mezzo a un mare di gente, comprese quelle nelle cui vene scorre il tuo stesso sangue. Si perché questo è anche un film che parla di senso di colpa e di responsabilità collettive e individuali. In tal senso, ma con conseguenze diverse e ancora più tragiche, torna alla mente il potentissimo I pugni in tasca di Marco Bellocchio; o ancora Pietro di Daniele Gaglianone.
Viene da sé che per sostenere un simile magma narrativo e tematico occorre una base solida, a cominciare da quella messa in campo dalla scrittura. Těšitel, che firma anche la sceneggiatura, non ha sempre il pieno controllo sull’intero arco drammaturgico, tanto che il racconto nel corso dei suoi ottanta minuti circa di timeline tende a spegnersi, per poi riaccendersi grazie a momenti di forte emotività: dall’incidente in metro al Peep show, dal duro faccia a faccia con il gestore del ristorante al furto delle scarpe nel parco di notte, dal confronto in cucina tra i due genitori alla salita sulla gru. Quest’ultimi sostengono l’opera nei passaggi più deboli, anche e soprattutto grazie all’intensa e partecipe performance davanti la macchina da presa del bravissimo Patrik Holubá, la cui interpretazione è senza ombra di dubbio il vero punto di forza e il motore portante di David. Oltre alle indubbie capacità tecniche dimostrate dal regista ceco (discreta maturità stilistica e notevole rigore formale) c’è, infatti, il merito di aver scovato Holubá nello sterminato bacino delle scuole di recitazione. La sua esperienza come attore di teatro e membro di una compagnia che propone attività per persone con disturbi mentali, è stata fondamentale, prima di tutto dal punto di vista della ricerca della verità. Quanto e cosa da lui portato sul grande schermo ne è la dimostrazione.
Francesco Del Grosso