Amori ribelli
Stanca di vedere film nei quali attori e attrici etero sono chiamati/e a interpretare personaggi gay e lesbo, per il suo Barash, Michal Vinik ci ha tenuto moltissimo ad avere nel cast due protagoniste che lo fossero realmente. Lo scopo era quello di restituire sullo schermo una sensazione ancora maggiore di verità e di spontaneità, attraverso le performance davanti la macchina da presa di attrici che, seppure giovani e alla primissima esperienza, oltre alla responsabilità di indossare la maschera del personaggio di turno non si facessero carico anche di quella di essere ciò che non sono da un punto di vista dell’identità sessuale. Scelta, questa, ancora più importante vista l’anagrafe dei due personaggi e le difficoltà richieste da entrambe le one line e che, a conti fatti, si è rivelata per quanto ci riguarda azzeccata e vincente. Un elemento che non deve essere sfuggito nemmeno alle giurie delle ultime edizioni dei festival di San Sebastian e del Mix Milano, dove la pellicola si è aggiudicata rispettivamente il premio per la migliore interpretazione femminile e quello per il miglior film.
In particolare, quello attribuito durante la kermesse spagnola alla promettente Sivan Noam Shimon, qui alla sua prima apparizione cinematografica, ci sembra assolutamente meritato, poiché è proprio la sua intensa e appassionata interpretazione di Naama Barash a fornire uno slancio determinante sia alla drammaturgia che al percorso del personaggio stesso. È lei il collante, il baricentro di tutto, la spinta propulsiva, tanto che quando la sua interpretazione perde forza anche il resto smette di girare e viceversa. La Shimon si cala alla perfezione nei panni di Naama, una diciassettenne che cerca di vincere la sua timidezza di ragazza di provincia drogandosi e scorrazzando con le amiche, di fuggire dalla famiglia, dove i genitori litigano in continuazione e da una sorella ribelle che si è arruolata nell’esercito e che un giorno scompare. Oziando nel cortile della scuola, un giorno Naama nota per la prima volta Dana, una ragazza eccentrica e spavalda che la introduce ai night-club lesbici di Tel Aviv. Inevitabilmente per la prima volta in vita sua si innamora e l’intensità dell’esperienza la confonde, ma al tempo stesso ridà un nuovo significato alla sua vita. Il film intreccia le vicende di Naama alla ricerca della sorella, che si scopre scomparsa per una storia d’amore che risulta proibita e traumatica per la società israeliana.
La Vinik firma un classico capitolo di un altrettanto classico romanzo di formazione e deformazione adolescenziale, incentrato sulla ricerca, sulla scoperta e di conseguenza sull’accettazione della propria identità. Non manca naturalmente in allegato il ritratto generazionale di una gioventù annoiata, priva di stimoli e di pudori, alle prese anche con i turbamenti amorosi, così come non manca il confronto generazionale tra la protagonista e i suoi affetti. Insomma, nulla di nuovo sul fronte drammaturgico. Ciò che risulta, al contrario, davvero interessante è il contesto e la cornice dove il tutto si consuma. Da notare, infatti, le sfumate ma penetranti critiche alla società israeliana che completano la dettagliata caratterizzazione delle due protagoniste. Questo consente all’opera e alla sua autrice di costruire un’architettura narrativa dove a palesarsi non sono solo le barriere invisibili, ma anche quelle fisiche, storiche e ideologiche.
Francesco Del Grosso