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Dark Waters

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VOTO: 8

Orrore supremo

Io sono colei che vive ed era morta
Ed ecco, ora vivo in eterno
e posseggo le chiavi del’inferno e della morte.

Di fronte a un film come Dark Waters si ha subito l’impressione dell’eccezionalità. È vero, negli ultimi anni il cinema indipendente italiano è tornato a mostrarci, rispetto ai generi, una discreta vitalità e qualche buona idea fiorita spesso in condizioni di totale autarchia produttiva. Ma quante di queste opere hanno eguagliato una tale compiutezza formale e narrativa? Quante hanno saputo rimodellare i sentieri classici dell’orrore, del thriller o magari della fantascienza mostrando un’autentica, genuina capacità di osare? A nostro avviso non molte. Ci verrebbe spontaneo citare Morituris (2011) di Raffaele Picchio e Oltre il guado (Across the River, 2013) di Lorenzo Bianchini, forse anche Zampaglione con Shadow (2009). Ad ogni modo raramente abbiamo avuto modo di constatare l’inventiva sul set, la conoscenza del genere horror, la capacità di sprigionare tensione e costruire atmosfere che abbiamo ravvisato invece in Dark Waters (1994), piccolo cult di Mariano Baino che tra l’altro verrà proiettato oggi 17 novembre (data ideale per affrontare maledizioni et similia) al Cinema Trevi, ore 21.15. Non solo. L’intera serata sarà dedicata al cineasta napoletano, del quale verranno proiettate a partire dalle 19 altre opere di più breve durata, ossia corti come Caruncula (1991), Never Ever After (2004) e il recentissimo (2016, l’anno di realizzazione) Lady M 5.1.

L’incontro col pubblico moderato da Michele de Angelis servirà inoltre a conoscere meglio un autore, per il quale sembra valere l’antico adagio: nemo propheta in patria. Lo stesso Dark Waters, piccolo capolavoro del genere, è stato realizzato in realtà in territorio ucraino, grazie anche a una produzione maturata proprio in quel contesto. Ciò ha garantito comunque all’autore l’accesso ad alcune location di sicuro effetto. Tra tutte, non possiamo non segnalare le leggendarie Catacombe di Odessa, un esteso e labirintico sistema di cunicoli sotterranei cui si lega una fitta aneddotica: non ultimi certi eroici episodi legati alla resistenza sovietica, nella città ormai occupata dai tedeschi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Dalla grande Storia passiamo però direttamente al Mito, a un mito oscuro, tenebroso, ovvero a quel racconto raccapricciante, sinistro e disturbante al massimo grado, sviluppato con artigianale perizia da Baino in questa sua pellicola.
Ad imporsi è un approccio filmico per certi versi seminale, rispetto al genere, ma al contempo ricco di echi lovecraftiani e di altre risonanze letterarie. Certi topoi vi sono introdotti con maniacale precisione: dal libro maledetto che fa pensare al Necronomicon all’oscura creatura evocata, dalla piccola comunità che custodisce orridi segreti all’isola brulla situata lontano dalle rotte più commerciali. In più amuleti. Perversi ordini religiosi. Dipinti satanici. Belle ragazze dal tragico destino. E persino qualche scena di raccordo in grado di generare repentini attacchi di aracnofobia, in chi vi è soggetto! C’è veramente di tutto nell’incubo partorito da Mariano Baino, ma ciò che lo “vivifica” (facendolo deperire e corrompere in un immaginario malato, ovviamente) è infine una costruzione narrativa curata, in cui ogni pezzo del puzzle ritrova implacabilmente la sua collocazione, posta poi in perfetta simbiosi con una regia a dir poco ispirata. Vertiginose “soggettive del Male” degne del primo Sam Raimi movimentano a tratti una metodica costruzione dell’atmosfera, in cui la cura di ogni dettaglio e l’inserimento di terrificanti segmenti onirici restituiscono appieno la portata della così rischiosa detection, affrontata dalla protagonista in un ambiente religioso a lei ostile che sarà fonte di macabre scoperte.

Stefano Coccia

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