Cata(clisma)
São Paulo, Chicago, Valladolid, Varsavia e ora Torino: si è mosso lungo quest’asse il destino festivaliero di Arpón, opera prima di Tom Espinoza, che ha fatto recentemente tappa nel concorso lungometraggi della 35esima edizione della kermesse piemontese. Il film ci catapulta al seguito di Arguello, il preside di una scuola appena fuori Buenos Aires che ogni giorno sottopone gli studenti a perquisizioni per paura che negli zaini si nasconda qualcosa di pericoloso. Cata è una studentessa di quattordici anni che ha un incidente nei pressi di un lago, e si ferisce. In attesa che i suoi genitori arrivino, Arguello rimane con lei per alcune ore che cambieranno le loro vite per sempre.
La visione della pellicola d’esordio sulla lunga distanza del regista argentino, dopo un tris di cortometraggi molto apprezzati nel circuito internazionale (tra cui Las Arácnidas), ha messo in evidenza la doppia anima che alberga in essa. Lo script prima e la trasposizione poi hanno contribuito, ciascuno a proprio modo e secondo le rispettive modalità, a rivelarne il vero identikit drammaturgico. Lo spettatore si trova al cospetto di due film in uno, con un drastico cambio di pelle che sancisce dopo una sessantina di minuti circa il passaggio di testimone da un genere a un altro, pur mantenendo il dramma di fondo come spina dorsale incaricata di sorreggere l’architettura del racconto. Quest’ultimo si dipana attraverso una narrazione che a un certo punto della timeline cambia registro, con il dramma sociale a sfondo scolastico, che sembrava puntare deciso nella direzione di Class Enemy, che fa spazio al mistery in odore di crime. Le due componenti hanno come filo conduttore il rapporto conflittuale tra una studentessa e un preside che, dalle aule e dai corridoi di un liceo, sconfina pericolosamente fuori dalle mura scolastiche. Gli scontri fisici e soprattutto verbali tra i due (notevole per intensità quello che va in scena nello spogliatoio femminile), oltre a restituire sullo schermo un confronto generazionale, rappresentano la benzina gettata sul fuoco per alimentare nel fruitore di turno il sospetto che qualcosa di più morboso possa accadere. Ma lasciamo alla visione il compito di svelare la presenza oppure di no di tale componente. Fatto sta che la platea si dovrà misurare con una mutazione di registro che a conti fatti risulterà meccanico e non calibrato a dovere. Ne consegue una profonda spaccatura all’interno della timeline, che restituisce sullo schermo due macro-blocchi che individualmente funzionano, ma solo a fasi alterne.
E se i suddetti macro-blocchi riescono a conti fatti a rimanere a galla sulla linea della sufficienza il merito è principalmente del lavoro svolto dietro e davanti la macchina da presa, che tira fuori il meglio anche dalle situazioni più ingarbugliate. Espinoza punta su una regia dallo sguardo e dall’approccio semi-documentaristico (pedinamenti e attaccamento spasmodico ai corpi), che contribuisce, alla pari delle interpretazioni asciutte degli attori chiamati in causa, a dotare Arpón di un forte realismo.
Francesco Del Grosso