Una fame atavica, che attraversa intere generazioni
Non è la prima volta che Dario Germani si confronta con Antropophagus, il cult di Joe D’Amato datato 1980. Tuttavia, mentre in Antropophagus II (2022) il regista aveva preferito esplorare sentieri nuovi valorizzando al massimo una location claustrofobica e comunque assai suggestiva come il bunker del Monte Soratte, in Antropophagus: Le origini l’omaggio diventa ancora più dichiarato, filologico, persino “viscerale”. Termine di cui appropriarsi qui nelle più svariate accezioni.
Senza “spoilerare”, come si usa dire, più del dovuto, alcuni personaggi dell’horror di Germani hanno persino un legame di sangue (e di carne, verrebbe da dire) col celebre cannibale del film di Joe D’Amato. A tutto ciò si somma l’utilizzo di brevissime ma oltremodo significative scene del prototipo e in più l’aver ambientato la fine del racconto in luoghi a esso collegati. Per dare poi maggior spessore a questa “legacy”, la lunga parentesi ungherese di Antropophagus: Le origini traccia un sapido collegamento tra il personaggio di George Eastman alias Klaus Wortmann, il cannibale originario, ed alcune tetre vicende legate alla storia ungherese del Dopoguerra, suggerendo peraltro la possibilità che un piccolo, isolato clan famigliare fosse dedito al consumo di carne umana da molto prima.
Sebbene a livello di scrittura le notevoli ambizioni di Antropophagus: Le origini appaiano solo in parte risolte, il modo di “accarezzare” il Mito stesso della nota pellicola, la notevole forza visiva di determinate scene e qualche lampo di macabro umorismo rendono la visione, per così dire, gustosa.
L’altro elemento riuscito del film è la scelta degli attori principali. Inedita “scream queen” e protagonista particolarmente espressiva è Valentina Corti, ovvero Hanna, giovane donna accusata d’aver ucciso il marito con particolare ferocia e spinta quindi a rifugiarsi clandestinamente in Ungheria, per difendere l’ultima ragione di vita rimasta: il figlio che ha in grembo. Ad attenderla a Budapest vi è Hugo, il misterioso cugino, interpretato da un Salvatore Li Causi capace di assicurare molteplici sfumature a quello che si rivelerà il personaggio chiave del racconto, ossia colui che mostrandosi inizialmente amabile e rivelando poco a poco modi sempre più cinici, brutali, trascinerà Hanna in un vortice di crescente oscurità.
Parallelamente agli eventi del presente scorrono, in flashback, le raccapriccianti storie inerenti a un clan magiaro di cannibali il cui profondo legame coi due cugini (e con Klaus, il protagonista del primo Antropophagus) sarà ben presto evidente. Impreziosito dai toni qui particolarmente cupi di una fotografia, che, nell’arco del film, finisce per sperimentare varie soluzioni, tale segmento narrativo è anche un “ripassino” della storia ungherese del Novecento, dal ritorno in patria degli internati nei campi di concentramento nazisti all’imporsi del brutale regime comunista e ai moti del 1956, per approdare con la corposa cronologia anche oltre. Un po’ ingenuo, va annotato anche questo, è aver fatto così pochi sforzi a livello di trucco per far apparire invecchiati i personaggi che all’inizio di un flashback concepito per attraversare diversi lustri apparivano giovanissimi. Resta però interessante quello storytelling inquieto e ammiccante che, alla maniera del capitolo probabilmente più sottostimato della saga di Hannibal Lecter, e cioè Hannibal Lecter – Le origini del male (Hannibal Rising, 2007), in cui si legava la genesi del serial killer cannibale ai tragici eventi della Seconda Guerra Mondiale, pare fendere la grande Storia con intenti analoghi. Una fame atavica, insomma, la cui degenerazione viene accostata in entrambi i casi al degenerare della società europea nel corso del ventesimo secolo.
Stefano Coccia