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Abang Adik

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VOTO: 8

Dalla parte degli ultimi

La prima volta della Malesia sul gradino più alto del podio, al Far East Film Festival, ha un po’ il sapore dell’ovazione. Trionfatore di questa 25° edizione è stato infatti Abang Adik di Jin Ong, cineasta abituato a “svettare” (anche in senso letterale: quasi una giraffa, a vederlo dal vivo), nelle vesti di produttore cinematografico e musicale, ma qui sorprendentemente al suo esordio da regista. E l’accoglienza della diligente platea festivaliera è stata a dir poco calorosa, se si pensa alla media voto stratosferica di 4,62 che gli ha fruttato il GOLDEN MULBERRY AWARD, premio accompagnato peraltro dal non meno prestigioso BLACK DRAGON AWARD (con la media di 4,54) e dal GELSO BIANCO per la MIGLIOR OPERA PRIMA.

Il perché di questo consenso pressoché unanime è presto detto: la forte empatia nei confronti dei due protagonisti, che si chiamano per l’appunto Abang e Adik, è il traino di un intenso racconto cinematografico che si pone sempre dalla parte degli ultimi, cioè di chi in una vorticosa metropoli come Kuala Lumpur sente addosso tutto il peso delle discriminazioni, della povertà, dell’incertezza riguardante il futuro.
Abang Adik, film le cui ambizioni autoriali non sono disgiunte da un sincero afflato antropologico, parte un po’ alla maniera delle opere dirette da Ken Loach o da altri registi particolarmente attenti alla dimensione sociale. Sono infatti storie di immigrati privi di documenti, sfruttati e ingannati da qualche trafficante, a salire subito in primo piano. E proprio in quel calderone fa la sua comparsa Adik (impersonato dall’attore malese di origini cinesi Jack Tan), che ha accettato di compromettersi con tali traffici per tenersi in qualche modo a galla nell’indigenza che lo circonda. Come un fratello, ma forse soltanto compagno di sventura al quale l’altro risulta profondamente legato, suo naturale completamento è l’onestissimo, altruista Abang (ovvero l’assai espressivo Kang Ren Wu): muto, gran lavoratore, l’unico che vorrebbe sul serio farsi aiutare dalla generosa assistente sociale Jia En, tra i pochi quest’ultima ad offrire una concreta possibilità di riscatto a quelle esistenze da troppo tempo abbandonate a se stesse. Eppure i casi della vita, beffardamente, imporranno anche a quel nobile tentativo un esito infausto e drammatico…

L’esordiente Jin Ong muove i pezzi sulla scacchiera della vita mettendo giustamente in risalto il delicato rapporto tra i due protagonisti, ma aspirando al contempo a una certa coralità, ben evidenziata da quei personaggi secondari che lasciano comunque un’impronta vivida sullo schermo. I modesti ambienti urbani e rurali che fanno da sfondo al racconto ricevono calore dalla fotografia così satura dell’indiano Kartik Vijay. Mentre la svolta indubbiamente tragica della narrazione offre lo spunto per un detour giudiziario, nella seconda parte del film, che ha in parte la tensione etica delle pellicole di Clint Eastwood. Volendo annotare qualche piccola “smagliatura” nella rappresentazione della vicenda, vi è forse un tono troppo didascalico nelle dichiarazioni (espresse peraltro con il linguaggio dei segni) di Abang, in carcere, sulla sfortunata condizione sua e di altri disgraziati, dei quali ha condiviso a lungo la sorte. Laddove però il film di Jin Ong recupera asciuttezza, condensando in poche eloquenti inquadrature il dramma incombente e la miseria stessa dei sobborghi di Kuala Lumpur, brividi autentici accompagnano lo spettatore fino a un epilogo che, almeno per il co-protagonista Adik, avrà il gusto di una seconda possibilità.

Stefano Coccia

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