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Wall

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VOTO: 7.5

Il (non) sense di un muro

Si parla tanto di muri fisici e mentali e quello che separa Israele dalla Palestina è oggetto di discussione così come è stato già soggetto di diversi film (da Il muro di Simone Bitton a The Reports on Sarah and Saleem diretto da Muayad Alayan). Wall, diretto da Cam Christiansen, tratta questo annoso e doloroso (soprattutto per chi vive lì) “tasto” in una maniera nuova, servendosi della tecnica del motion capture sugli attori per poi renderla con l’animazione digitale – molto funzionale alla rappresentazione. «Mi piace molto il mezzo visivo ed esplorare nuovi territori. Puoi creare mondi diversi in cui l’unico limite è la tua immaginazione. Molti film animati vengono girati in tempi diversi, qualcuno parla, qualcuno si muove e poi si assembla in qualche modo il tutto. Il mio pensiero era di avere tutti i nostri attori nello stesso spazio, e girare tutto in tempo reale; le esibizioni sono molto più naturali quando i personaggi reagiscono l’uno all’altro, piuttosto che in uno spazio verde vuoto. Abbiamo registrato il movimento dei corpi e delle esibizioni usando una telecamera frontale in modo da poter incorporare quel filmato del viso nell’animazione stessa», ha spiegato il regista.
David Hare, definito dal Washington Post «il più importante drammaturgo politico che scrive in inglese», aveva portato in scena un monologo nel 2009 (per la prima volta al Royal Court Theatre di Londra e poi al Public Theatre di New York, per la regia di Stephen Daldry) e – come ha sottolineato egli stesso durante l’incontro alla quarta edizione di Visioni dal Mondo – Immagini dalla Realtà – difficilmente si rimette mani a un testo così. In realtà, a distanza di tempo rispetto allo spettacolo, la materia era ancora più viva e calda ed è così che è sorto spontaneamente l’adattamento a quattro mani con Christiansen.
Il grigio (con varie sfumature) rende tutto più rarefatto, «tutto è metafora in quello che viene mostrato», ha evidenziato il regista e, in effetti, si denota in Wall una scelta ben precisa: non insistere sulla violenza, ma raccontare come il muro ha violentemente modificato la regione e la quotidianità di chi abita quella terra. Sono solo due gli episodi più forti che si è scelto di mettere in scena, tra cui l’attacco alla discoteca a Tel Aviv nel 2001 – che portò alla decisione di erigere questa lunga linea di separazione. Hare compie un vero e proprio viaggio (e di riflesso noi con lui) tra i vari check point, incontrando, tra gli altri, lo scrittore David Grossman; assistiamo alla sua conversazione con amici israeliani sul significato di questo «recinto di separazione» per gli israeliani e del «muro di segregazione razziale» per i palestinesi.
Il punto di forza di Wall è che con delicatezza e incisività emerge come non ci sia nessun vincitore, da nessuna parte, anzi il muro è «il crimine perfetto perché crea violenza» ed è esemplificativo di come anziché evolverci, in primis umanamente, si stiano erigendo sempre più barriere, facendole passare come un’arma di sicurezza (quali non sono). Un piccolo appunto lo facciamo sulla durata: qualche minuto in meno avrebbe giovato ulteriormente al ritmo e all’incisività del racconto.
Il film lascia anche una speranza nel momento in cui esplode il colore, ma non vogliamo rivelarvi di più.

Maria Lucia Tangorra

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