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Trollhunter

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VOTO: 8

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«Nel 2006, due Dvd contenenti oltre duecento minuti di filmati furono fatti pervenire in forma anonima alla redazione di un giornale norvegese; da questi due supporti, reputati autentici, è stato tratto un video contenente i momenti più significativi, ed è ciò che voi spettatori state per vedere». Nella didascalia con la quale si apre l’opera seconda di André Øvredal, Trollhunter, realizzato a un decennio di distanza dall’esordio con Future Murder (2000), c’è l’essenza stessa e la sintesi perfetta del sottogenere documentaristico alla quale questa appartiene, ossia il mockumentary. Il film scritto e diretto dal regista scandinavo, divenuto un vero e proprio cult tra gli addetti ai lavori e non, riprende lo stile narrativo e quello visivo (il P.O.V.) già visti in The Blair Witch Project o Cloverfield, creando una storia che unisce le atmosfere cupe e minacciose del primo con i racconti di creature mostruose del secondo.
Siamo al seguito di una troupe formata da tre giovani studenti di giornalismo, Kalle, Johanna e Thomas, alle prese con un reportage sulla caccia agli orsi, attività che nei Paesi scandinavi è sottoposta a severe norme di comportamento. Durante le riprese il terzetto incontra Hans, all’apparenza un bracconiere illegale come tanti, ma nella realtà un membro della misteriosa T.S.T., il Troll Security Team, un’organizzazione governativa segreta che si occupa della salvaguardia dei troll e di celarne l’esistenza all’opinione pubblica. Il suo compito è quello di cacciare e uccidere ogni creatura che esca dal suo territorio, diventando un pericolo per gli esseri umani. A questo punto, la troupe inizia a documentare il vero lavoro di Hans, trasformandosi prima in testimoni e poi in vittime sacrificali immolate sull’altare di uno scoop.
Méliès d’argento al FantaFestival, in concorso al Brussels International Festival of Fantasy Film e vincitore del premio del pubblico agli Oscar norvegesi del 2011, Trollhunter mescola senza soluzione di continuità avventura, azione, fantascienza e horror, rendendo impossibile allo spettatore di turno l’individuazione del momento preciso chiamato a sancire il cambio di registro nella narrazione. Il risultato è un frullato imprevedibile di generi, cucito con il ritmo incalzante del jump cut e impreziosito da effetti visivi di discreta fattura che portano sullo schermo una versione inedita dei troll, dipinti digitalmente come animali selvaggi dal quoziente intellettivo di una capra, lontani anni luce dall’immaginario fiabesco. Un prodotto geniale nella sua semplicità, capace di riunire in un centinaio di minuti gli ingredienti base del mockumentary con quelli del cinema di finzione dalle venature fanta-orrorifiche che tanto ha proliferato nella prima decade del nuovo millennio. Da parte sua, Øvredal sforna almeno una mezza dozzina di scene da antologia condite con adrenalina a buon mercato e una dose si sano e glaciale humour nordico che non guasta mai: dal primo avvistamento di un gigantesco troll con conseguente fuga disperata nel bosco da parte della troupe a quella ancora più spettacolare che vede protagonista una pericolosissima bestiaccia a tre teste, passando per l’attacco sul ponte di legno e il faccia a faccia in modalità night shoot dei nostri eroi con un branco affamato all’interno di una miniera abbandonata.
Insomma, un piccolo gioiellino da recuperare assolutamente per ben due motivi: da una parte per vedere uno degli esempi più riusciti del filone mockumentary, dall’altra per conoscere meglio il lavoro di uno dei registi più promettenti dell’ultimo ventennio (non a caso Variety lo ha menzionato nella classifica dei dieci cineasti del 2010), attualmente nelle sale nostrane con il suo esordio in lingua inglese. E proprio l’uscita nei cinema italiani l’8 marzo del claustrofobico Autopsy ci ha spinto ad andare a recuperare il suo titolo più riuscito.

Francesco Del Grosso

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