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Il padre d’Italia

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VOTO: 6

I sogni che finalmente sogniamo

“Arreda casa” suggerisce il grande fratello fac-simil-Ikea. Crocifiggi di chiodini la tua vita prefabbricata e rieduca i tuoi sogni a misura di bambino, purché sia quello sorridente e spersonalizzato dello spot per camerette felici. Nella tua casa in cui non dimora famiglia. Perché nella contemporaneità 3.0 gli esseri umani hanno emozioni standard dietro ruoli sconnessi, passioni catalogate dietro maschere ribelli, famiglie disperse dietro sogni infranti.
Due cuori on the road, Mia e Paolo, secondo la più classica formula, lungo la riva impossibile di un mare in cui annegare l’inverno di uno scontento fuori tempo massimo, in cui loro, Mia e Paolo, non riescono più a parlare a se stessi e quindi, si trovano.
Fabio Mollo, trentaseienne regista calabrese sensibile all’arcaico, indigesto, amato quanto detestato sapore della terramara mai ferma, eclettico frequentatore di set, film maker per MTV e aiuto regia per il nuovo cinema italiano, dopo l’acuto aspro esordio Il Sud è niente abbandona la stanzialità della scenografia (ma non dello sguardo) con Il padre d’Italia, snocciolando con il suo febbrile contatto visivo il proprio profondo ermetismo dell’espressione, dirigendo e scrivendo (in coppia con Josella Porto) tra fiaba garroniana e vago grottesco sorrentiniano, un itinerario dell’anima Torino-Napoli-Calabria e ritorno/i, fatto di precarietà e di alienazioni declinate al contemporaneo.
Take me out tonight… anywhere… don’t care. Portami via oppure, vieni via con me. Loro si trascinano via, agitati dal vento che li allontana dalla vita in bianco e nero. Mia, che non appartiene a nessuno, forse neanche a se stessa, scappa, da un futuro che non vuole ancora scriversi addosso insieme ai segni di una gioventù bruciata tra relazioni fallite, vezzi punk e microfoni scordati. Paolo, orfano sognante, impiegato della para-Ikea torinese, maglia blu e sorriso sbiadito, occhi infuocati e passioni a stento sopite per un compagno con cui non ha avuto forza di impegnarsi, nel Paese troppo liquido fatto di crisi autarchiche e di trucioli ex-portati. Lui ha un furgone e nessuna meta. Lei non ha nulla se non memorie spezzate e sta per partorire una figlia fuori posto. Due anime contrapposte e paritetiche, che devono educarsi all’insostenibile meraviglioso fardello dell’“altro”, uniti da un malore in discoteca e poi dalla folle corsa alla ricerca della possibile casa, del possibile padre, di una possibile sorte, tra coinquilini partiti, fidanzati deceduti, abiti da sposa sgraffignati, egoismi parentali, disfunzionalità miste di famiglie (in)attuali.
Un dialogo di sguardi e di risacche quello tessuto da Mollo, con la lenta reticente stravolta bellezza di una miseria che può essere felicità. La insegue Mollo, la generazione perduta che genera interrogativi. Paolo e Mia, anacronistici laconici Adamo ed Eva, improbabili imperfetti genitori.
Un dialogo, tessuto con la lenta, estenuante, reticente bellezza di una miseria che potrebbe disperatamente trasformarsi in felicità. Un canto d’amore ellittico eppur vitale, dopo Il Sud è niente, per una lei che verrà.

Sarah Panatta

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