Chi non beve in compagnia è un ladro o una spia
Negli otto titoli, tra gli oltre cinquanta a disposizione ai quali ha preso parte sino ad oggi, scelti dalla direzione artistica del Florence Korea Film Fest per andare a comporre quello che è stato l’omaggio nella 23esima edizione della kermesse toscana dedicato a uno dei più illustri attori del panorama sudcoreano, ossia Hwang Jung-min, non poteva di certo mancare The Spy Gone North (Gongjak). Questo perché la pellicola di Yoon Jong-bin, oltre ad essere un tassello importante nella sua filmografia e senza alcun dubbio una delle sue massime espressioni in termini di resa, con una performance davvero difficile da dimenticare per potenza e livello di intensità. Del resto, le sue qualità sono ben note e riconosciute anche a livello internazionale, comprese la capacità camaleontica di entrare in qualsiasi tipologia di personaggio, di cambiare registro e temperatura in un battito di ciglia, oltre alla versatilità nel passare senza soluzione di continuità da un genere all’altro. Tutte qualità che nella pellicola in questione, presentata a suo tempo al Festival di Cannes 2018 nella sezione “Midnight Screenings” e rispolverata per l’occasione, è possibile rintracciare. Ed è su di esse che il regista di Pusan ha potuto contare per portare sullo schermo il suo quinto film, quest’ultimo liberamente ispirato alla vera storia di Park Chae-seo.
All’attore di Masan è toccato infatti il difficilissimo compito, assolto però con grande maestria al punto da alzare ulteriormente l’asticella e diventare il valore aggiunto dell’opera, di indossare i panni dell’agente segreto che è riuscito a metà degli anni Novanta nell’impresa impossibile di arrivare fino a Pyongyang e sedersi al fianco del leader supremo Kim Jong-il. La lancette ci riportano al 1993, con l’ex ufficiale militare che viene reclutato come spia dal Servizio di intelligence nazionale della Corea del Sud, e riceve il nome in codice “Black Venus”. Viene quindi inviato a infiltrarsi in un gruppo di alti funzionari nordcoreani con sede a Pechino, con l’obiettivo finale di acquisire informazioni sul programma nucleare della Corea del Nord. Dopo essersi avvicinato a Ri Myong-un, un importante broker, Black Venus riesce oltre alle sue aspettative, a conquistare la fiducia della leadership della Corea del Nord. Ma le macchinazioni politiche da entrambi i lati del confine minacciano di far deragliare il suo lavoro.
La sinossi, a dispetto della ragnatela di intrighi che la storia tesse sullo schermo, dichiara apertamente e “gioca” a carte scoperte con lo spettatore di turno rivelando quelle che sono il genere di appartenenza, gli stilemi e gli archetipi dai quali attinge per prendere forma e sostanza narrativa e visiva, oltre alle radici dalle quali ha germogliato drammaturgicamente. Il titolo in tal senso è già di per sé una lettera d’intenti e un biglietto da visita di quello che da lì a poco andremo a vedere, con The Spy Gone North che va per caratteristiche e contenuti a iscriversi in quella che è la tradizione dei grandi film che raccontano il delicatissimo rapporto fra le due Coree. Rapporto, questo incandescente e simile a una polveriera, che è portato avanti da questa sorprendente pellicola di Yoon Jong-bin, che si era già messo in luce nel 2006 con l’ottimo esordio, The Unforgiven, nel quale aveva descritto la brutalità dell’ambiente militare. Più o meno qui resta in tema, spostando però il fuoco sulla lotta senza esclusione di colpi tra spie della Corea del Nord e del Sud, in una solidissima spy story, innervata di Storia e politica. Nonostante i fatti siano stati romanzati, motivo per cui differiscono in gran parte dagli eventi realmente accaduti, il contesto storico e le dinamiche di potere chiamate in causa sono assolutamente vere e credibili. Il ché ha permesso alla scrittura, che porta la firma del regista e di Kwon Sung-hwi, di rievocare con grandissima efficacia, realismo e attenzione, il clima infuocato e le atmosfere turbolente dell’epoca, agevolando e rendendo altrettanto curata la trasposizione, la messinscena e la messa in quadro. A completare il processo di immersione ci hanno pensato costumi e scenografie con un lavoro certosino improntato sul dettaglio, consegnando allo schermo un period-drama storicamente impeccabile.
E se tutto funziona il merito è in gran parte dell’orchestrazione dietro la macchina da presa di Yoon Jong-bin, che ha sfornato una spy-story avvincente e spettacolare lontana dagli stereotipi jamesbondianie che sembra uscito dalle pagine di un romanzo di John Le Carrè. Con una bussola simile a indicare la strada e rispettando quelle che sono le regole d’ingaggio del filone di riferimento, l’autore offre una sintesi artigianale ed esemplare del cinema di spionaggio, con tutto il campionario al seguito, a cominciare dall’altissimo e costante livello di tensione mista a suspence che attraversa l’intera timeline. Sempre sul filo di un precario equilibrio pronto a spezzarsi in qualsiasi momento (gran parte delle scene sono costruite sull’attesa e la sensazione di pericolo imminente), i 140 minuti di durata scorrono senza punti morti o passi falsi a ritmo sostenuto, regalando al pubblico una partita a scacchi davvero coinvolgente.
Francesco Del Grosso