Benvenuti nel “paradiso dei lavoratori”
Come può un supposto “paradiso dei lavoratori” trasformarsi in un incubo? Di esempi storicamente documentati il Novecento ne ha offerti davvero tanti, purtroppo. Ed anche gli esempi cinematografici non mancano. Sebbene sugli orrori dello stalinismo (e di cornici ideologiche affini) la cinematografia mondiale abbia già offerto parecchio, questo lungometraggio finnico scoperto grazie al Nordic Film Fest 2018 merita a nostro avviso la massima attenzione, per l’accuratezza della rievocazione storica, per l’intensità della narrazione e per un valore filmico indubbiamente alto. Misconosciuto capolavoro da recuperare assolutamente, quindi, per quanto il suo autore risulti pressoché sconosciuto, malauguratamente, nel nostro paese.
Eppure, sulla riuscita artistica di un’opera cinematografica come The Eternal Road (Ikitie, 2017) ha inciso proprio l’impressionante maturazione registica di Antti-Jussi Annila, già “enfant prodige” del cinema scandinavo portato a contaminare i generi con una certa spregiudicatezza, di sicuro assai apprezzabile. Nella sua sorprendentemente scarna filmografia risaltano ad ogni modo un paio di gemme. Innanzitutto il film che nel 2006 ce lo fece conoscere, Jade Warrior (Jadesoturi, in finlandese), immaginifico crossover tra l’estetica del Wuxiapian e alcune tracce offerte dal Kalevala, il più importante poema epico finlandese. Curioso poi ritrovare nel cast di questo prodotto, che mescola arditamente tradizioni locali e arti marziali di provenienza cinese, un attore come Markku Peltola, caro anche al pubblico di Aki Kaurismäki. Altrettanto eccentrico lo spaventoso e atmosferico Sauna, film dell’orrore realizzato nel 2008 e ambientato addirittura nel sedicesimo secolo, mescolando quindi le prerogative del cinema in costume con inquietudini mutuate direttamente dal J-horror, il filone nipponico così popolare in quegli anni grazie a Ringu, The Grudge e altri titoli di successo.
Il nostro Antti-Jussi Annila ha poi sonnecchiato parecchio, per riproporsi ora con una vicenda ancora più forte da mettere in scena, con un mood cinematografico più teso e omogeneo, a ridosso però di quella che continua ad essere per lui una passione inscalfibile, autentica: la contaminazione dei generi.
Lo sfondo storico di The Eternal Road, ispirato peraltro a fatti realmente accaduti (e già condensati in un libro dal connazionale Antti Tuuri), corrisponde alla Grande Depressione degli anni ’30, periodo di crisi iniziato negli USA di cui Stalin approfittò per esortare i lavoratori degli altri paesi a raggiungere l’URSS, così da costruire tutti insieme una nuova società basata sulla giustizia, l’uguaglianza e la libertà. Anche molti cittadini americani e canadesi vicini alle idee socialiste accettarono l’invito. Furono più di 10.000. Ma per loro non finì bene. Mutato il clima politico, instauratasi una spirale di controlli polizieschi, paranoie diffuse e repressioni di rara ferocia, quelle volenterose comunità “ospiti” del sogno sovietico riorganizzate in kolchoz nella regione artica furono decimate una dopo l’altra, tra delazioni, processi farsa, brutali interrogatori, torture, esecuzioni sommarie e uccisioni di massa. Pochi “fortunati” furono semplicemente rimpatriati nei paesi d’origine, ma per il resto la spietata macchina di morte messa in moto da Stalin e dai suoi più stretti collaboratori non conobbe pietà. E in questa cornice ha luogo anche la fosca avventura del nostro protagonista, il finlandese Jussi Ketola (qui interpretato da un convincente Tommi Korpela), soggetto pacifico e anarcoide prelevato con la forza da connazionali di estrema destra e costretto a riparare in Unione Sovietica, dove gli verrà impedito per anni di tornare dalla propria famiglia, costretto invece a partecipare alla costruzione del fantomatico “paradiso dei lavoratori” sotto il controllo continuo della polizia politica, fino ad assistere in prima persona a indicibili orrori sottraendosi lui stesso, un po’ per caso, a una gran brutta fine.
Non inganni la robustezza del tema trattato: quello di Antti-Jussi Annila non è comunque un semplice film di denuncia, bensì un polimorfico oggetto filmico che accumula pathos di continuo parafrasando liberamente gli stilemi del western, del noir, del melo e di diversi altri generi, riadattati con personalità sia durante il rapimento del protagonista, sia durante la sua permanenza forzata nel kolchoz. Cinema di altissimo livello, insomma, che finisce poi per inglobare la tragicità della Storia con una parte finale da incubo, simile volendo a Katyn del maestro polacco Wajda per la crudezza con cui le esecuzioni vengono messe in scena.
Stefano Coccia