Magica Torino
Che la città di Torino sia da sempre scenario ideale di storie esoteriche, così come di thriller o di horror diventati ormai dei veri e propri cult, è cosa risaputa. Non a caso, dunque, sono in molti, ancora oggi, a volerla scegliere come location per le proprie creazioni. Come dare loro torto, d’altronde? Perché, di fatto, l’affascinante capoluogo piemontese sembra davvero nascondere misteriosi segreti ed avere parecchi aspetti nascosti di cui in pochi sospettano l’esistenza. Almeno, questa è l’impressione che si ha. Uno degli ultimi autori ad averla scelta per il proprio lungometraggio, ad esempio, è Louis Nero – figlio del grandissimo Franco Nero – il quale con il suo The Broken Key ha voluto mettere in scena un singolare thriller fantascientifico, che si fa principalmente apologia delle Arti e del loro potere salvifico. Un prodotto dagli ottimi intenti, senza dubbio. Eppure, malgrado le buone intenzioni iniziali, purtroppo il risultato finale è un film decisamente maldestro, con scelte registiche e di sceneggiatura non particolarmente azzeccate e che arranca fino Ai titoli di coda con una serie di trovate poco convincenti.
La storia che qui ci viene raccontata è ambientata in un futuro non troppo lontano. La Zirmugh Corporation, la “Grande Z”, sembra ormai controllare il mondo e, dal momento che una severa legge sull’eco-sostenibilità dei prodotti regna sovrana, anche stampare la carta è considerato reato. Sarà compito del giovane ricercatore inglese Arthur J. Adams trovare il frammento mancante di un antico papiro, dal quale dipende la salvezza dell’umanità intera. Gli ostacoli, però, non saranno pochi, a partire dalla misteriosa catena di omicidi apparentemente legati ai sette peccati capitali.
Di carne a fuoco, come si può ben vedere, c’è n’è molta. Troppa, a dir la verità. E i problemi nel gestire tutti questi elementi si fanno sentire eccome. Se a questo aggiungiamo una regia eccessivamente incosciente, un montaggio che vede ingiustificate dissolvenze al nero all’interno di una stessa scena ed attori che, probabilmente a causa della direzione stessa, non sono mai al massimo delle loro prestazioni, ecco che un lungometraggio potenzialmente interessante, che avrebbe potuto affermarsi come uno dei più articolati film di genere prodotti in Italia oggi, finisce ben presto per sgonfiarsi come un palloncino, suscitando, di quando in quando, anche qualche imbarazzata risatina involontaria.
Eppure, grazie soprattutto ai numerosi riferimenti alla letteratura (in particolare alla “Divina Commedia” di Dante Alighieri) ed alla storia dell’arte (a Hieronymus Bosch in primis) – trovate, queste, che spesso e volentieri hanno salvato in corner prodotti altrimenti insufficienti – di spunti interessanti ce n’erano eccome. Non sempre è facile, però, rendere sul grande schermo ciò che inizialmente si ha in mente.
Ad un lavoro come The Broken Key, tuttavia, un merito va di certo riconosciuto: come già è stato accennato, indubbie sono le ottime intenzioni del regista stesso, il quale, nella sua ingenuità dovuta evidentemente alla poca esperienza, ma anche a non poche difficoltà dal punto di vista produttivo, ha comunque dimostrato onestà e buona fede. Cosa, questa, che – se pensiamo ai numerosi lungometraggi che furbamente tentano di ingraziarsi il pubblico con becere trovate – di certo gli fa onore.
Marina Pavido