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Playing God

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VOTO: 7,5

Nelle mani del Creatore

L’animazione quale strumento per esprimere crisi esistenziali profonde, in fondo la stessa condizione umana. Non è raro che capiti di incrociare lavori impostati così ai festival. Soprattutto tra i cortometraggi concepiti con maggiore libertà creativa. Ne è un esempio assai recente Manny dell’americano Pierre Alexandre Ducos, segnalato dalla giuria con una Menzione Speciale alla terza edizione di Indiecinema Film Festival: un corto decisamente poetico, in cui lo slancio artistico del protagonista-manichino (e di riflesso dell’autore stesso) va a incanalarsi negli sforzi da lui attuati per staccarsi dal piedistallo, che all’inizio lo tiene vincolato, così da potersi appropriare di una matita e dare libero sfogo alle sue fantasie.
Qualche affinità con tale lavoro l’abbiamo senz’altro riscontrata in Playing God, il corto di Matteo Burani premiato a Ravenna, in cui una situazione per certi versi analoga ma con differenze anche sostanziali (pure qui c’è un pupazzo che vorrebbe evadere dalla base cui è incollato, ma un ruolo attivo lo svolge anche il “demiurgo” che lo ha plasmato e in più il suo tentativo di fuga avrà conseguenze di gran lunga più angoscianti, sul piano esistenziale) mostra diverse somiglianze sia in campo figurativo che a livello tematico. Da ammirare nel corto vi sono quindi sia un uso ammirevole dell’animazione in stop motion, cui ci si appoggia per dar vita sia al protagonista “umanoide” che ai suoi compagni di prigionia, sia l’indubbia profondità filosofica dello scarno, ma invero lancinante racconto.

Ci troviamo pertanto a concordare con chi, al termine del 22° Ravenna Nightmare, ha voluto assegnare il PREMIO MÉLIÈS D’ARGENT per il miglior cortometraggio europeo proprio a Playing God, con la seguente e decisamente ben strutturata motivazione: “Utilizzando in maniera sublime la tecnica in stop motion, il film racconta con geniale inventiva l’atto della creazione dell’uomo, riuscendo visivamente a farci sentire come quel pupazzo che prende vita: abbandonati al nostro destino. Grazie ad un sound design perfettamente orchestrato e angosciante, i pochi minuti del corto scorrono con una tensione crescente. Notevole anche la capacità narrativa e di scrittura che perfettamente si coniuga alla bellezza fotografica dell’immagine creata.

Stefano Coccia

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