Minamata Mon Amour
La collaborazione tra il Ravenna Nightmare Film Fest e l’Ottobre Giapponese, che quest’anno ha regalato anche in apertura un momento splendido come la tradizionale Cerimonia del Tè, continua a propiziare tutta una serie di incontri, approfondimenti, scoperte cinefile e ibridazioni artistiche, da cui se ne esce ogni volta ammaliati. Per questa ventiduesima edizione, poi, il festival romagnolo ha preso l’illuminata decisione di conferire un Anello d’Oro – Special Edition a un cineasta nipponico tanto importante a livello mondiale, quanto poco conosciuto e poco studiato in Italia. Parliamo di Hara Kazuo. E i suoi documentari proiettati per l’occasione a Ravenna (nonché inediti, spesso, per quanto concerne il pubblico italiano) hanno rappresentato in certi casi un auspicabile, “salutare” pugno allo stomaco.
Sì, perché l’esperto Hara Kazuo è un regista passato al cinema quasi per caso, dopo aver esordito come fotografo, ma con le idee molto chiare: portare cioè sullo schermo vicende sofferte, argomenti considerati “tabù”, tematiche considerate scomode per la società giapponese. La classica polvere che altri preferiscono nascondere sotto il tappeto. Lui invece ce la mostra, quella polvere, ma senza sensazionalismi di sorta e senza rimestare nel torbido, lasciando semmai uscire fuori tutta l’umanità dei personaggi da lui incontrati.
Per rendersene conto era stato sufficiente assistere alle prime due proiezioni in programma a Ravenna, Addio CP (Sayonara CP, 1972: il suo film d’esordio) e Avanza, avanza, esercito divino! (Yuki, yukite, shingun, 1987). Ma è con la proiezione “a tappe” di Minamata Mandala (2021), fluviale documentario costato decenni di ricerche, interviste, riprese, che il quadro si è arricchito di un’esperienza spettatoriale a dir poco unica, intensa e scioccante.
Con intervalli posti a circa un paio d’ore l’uno dall’altro, piccole pause volte a rendere più sostenibile – con l’ausilio di generi di conforto come the verde e sakè – la visione del film, questo documentario “monstre” di oltre 6 ore riesce ad esprimere con una giusta, ponderata temperatura emotiva tutto il disagio delle vittime, di fronte alla rigida burocrazia, alla scarsa empatia e al fluire di scuse vili e parziali da parte delle autorità giapponesi, anche dopo che poteva dirsi accertato l’esito disumano e raccapricciante di una delle peggiori catastrofi ambientali del Novecento: quella di Minamata, ovvero la terribile patologia nota per l’appunto come “malattia di Minamata” poiché scoperta per la prima volta in tale località, situata in Giappone nella Prefettura di Kumamoto. I primi accertamenti ufficiali avvennero solo nel 1956, ma la causa reale di questa sindrome dagli effetti devastanti sia sugli animali costieri che sull’essere umano corrispondeva già da tempo all’abnorme, sregolato rilascio in mare (attraverso le acque reflue) di metilmercurio, da parte dell’industria chimica Chisso Corporation, scempio ecologico che perdurò impunemente dal 1932 al 1968. Lo scempio successivo, quello trattato più approfonditamente nel film, fu invece l’ostracismo posto in atto dalle istituzioni nipponiche, sia politiche che amministrative e giudiziarie, al momento di stabilire qualche equo risarcimento per chi si era ammalato più o meno gravemente o aveva avuto parte della famiglia annientata. Una battaglia legale, questa, che è andata avanti a lungo e che ancora oggi prosegue, attraverso un’estenuante serie di processi e ricorsi dall’esito spesso vergognoso.
De resto qui in Italia non ci dovremmo neanche stupire troppo: chi ha seguito bene i casi dell’ILVA a Taranto e dell’amianto, cioè la Eternit, a Casale Monferrato, si è sovente confrontato, purtroppo, con dinamiche – e tempistiche – simili.
Non è nemmeno la prima volta che le tristi vicende di Minamata approdano al grande schermo. Di recente vi è stato persino un film dell’americano Andrew Levitas con Johnny Depp protagonista, Il caso Minamata (2020). Ma è a un pionieristico, umbratile documentario giapponese realizzato nel 1971 da Tsuchimoto Noriaki che l’anziano Hara Kazuo ha voluto agganciarsi in modo più stretto, arrivando anche a citarne ed analizzarne alcune sequenze, nel corso di un lavoro che ha portato via 15 anni per le riprese e 5 per il montaggio.
Per il resto Minamata Mandala, mutando forma nell’arco di tre capitoli ma restando sempre coerente al rispetto e all’interesse sincero per le vittime, prende di volta in volta le sembianze di “legal movie”, di film d’inchiesta, di documentario d’osservazione, riuscendo sempre ad appassionare lo spettatore alla criminale gestione di questo disastro ambientale e, soprattutto, alla travagliata esistenza di quegli esseri umani che ne sono stati loro malgrado protagonisti.
Stefano Coccia