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L’intervallo

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VOTO: 7.5

Alla ricerca del tempo dimenticato

«Succede che gli uccelli che vivono in gabbia,
anche se gli apri la porta non fuggono.
[…]
Mio padre mi ha spiegato che tra gli uccelli piccoli
il pettirosso è quello più coraggioso,
non ha paura di niente»
Salvatore

Su un’inquadratura da quadro paesaggistico si stagliano le parole in voice over di Salvatore (Alessio Gallo) immergendo lo spettatore nel mood di quel viaggio che di lì a poco compirà alla ricerca del tempo e del mondo perduti – e chissà, forse mai vissuti. Un incipit evocativo e dal taglio favolistico associato all’immagine realistica di Napoli ci iniziano a ciò che accadrà; parole simboliche che pian piano si legano alle azioni e alle personalità dei due ragazzi protagonisti de L’intervallo di Leonardo Di Costanzo. Veronica (Francesca Riso) e Salvatore si ritrovano ad abitare forzatamente un luogo disabitato (scelta come location l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi a Napoli), una in veste di vittima e l’altro di carnefice – stando ai ruoli assegnati non in sceneggiatura, ma dalla società. Ci preme subito sottolineare l’acutezza di Di Costanzo e degli co-sceneggiatori (Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente) nello scardinare subito il luogo comune del binomio vittima-carnefice perché con L’intervallo siamo di fronte ad una messa in scena che scardina le sovrastrutture a favore della riscoperta del mondo puro e dello lo sguardo fresco dei giovani.
Il tutto nasce e “muore” nell’arco di una giornata, per Salvatore dovrebbe essere una giornata come tante, col suo carretto per la granita, un’ellissi e ci ritroviamo nella prigione dello spazio abbandonato nel vivo della città. Immedesimandoci nello sguardo vergine del diciassettenne, costretto da un ordine a sorvegliare Veronica, ma senza sapere il motivo per cui lei è rinchiusa, assistiamo allo scontro-incontro tra i due. Lui la spia, lei – in ombra –  cammina in esplorazione di quel luogo carcerario. L’impeccabile fotografia di Luca Bigazzi contribuisce in modo determinante a creare un gioco tra le architetture della prigione (ingressi ad arco), la luce proveniente dall’esterno e i due ragazzi (significative le scene di contrasti di luce, funzionali nell’accentuare i momenti di collisione tra Salvatore e Veronica che caratterizzano la prima parte). Grazie ad una mano registica delicata e partecipe, abile nell’esplorare i luoghi esterni e l’inside umano, noi spettatori ci ritroviamo ad aderire al loro mondo in un percorso di formazione e di incontro dell’altro. L’occhio di Di Costanzo si lascia trasportare dalla genuinità dei due protagonisti (attori non professionisti), li segue (il film è girato con macchina a spalla) in quest’avanscoperta del luogo di costrizione e dell’altro con cui son costretti a vivere. Se da un lato Veronica appare come una ragazzina che provoca e stuzzica, dall’altro commuove per la sensibilità con cui vuol rendere omaggio alla ragazza che si è suicidata perché incinta e di cui trovano la foto nei sotterranei della prigione – «mettiamole dei fiori, non la pensa più nessuno». Veronica e Salvatore sono anche un uomo e una donna che in questo lasso di pausa dalla scuola, dal lavoro, dal crescere troppo in fretta si ritrovano a fare i conti coi loro sogni, con i desideri e con la scoperta dell’altro sesso. Nella natura la fantasia si risveglia così come i discorsi “da ragazzi”, si raccontano storie e giocano a chi vorrebbero salvare se arrivasse ubn terremoto. Conservando lo sguardo documentaristico (vedi anche la scelta dell’ “oasi” naturale nello spazio diroccato) e sposando la spontaneità e la freschezza dello sguardo adolescenziale, Di Costanzo riesce a parlare di Napoli, dei mali umani senza cadere in cliché o scelte di messa in scena già viste o prevedibili. La sua Napoli è lo sfondo e il luogo che ha abitato i suoi precedenti documentari (Cadenza d’inganno (1), Odessa e A scuola), ritorna ad essere co-protagonista nel suo primo film di fiction dove al centro sono gli effetti delle logiche del dominio malavitoso tramite una scelta narrativa che lavora in sottrazione.
Ci si ritrova a crescere troppo in fretta, soprattutto in determinate realtà, costretti ad accettare le regole preimposte e ne L’intervallo gli adulti entrano in campo nella funzione di chi minaccia e contamina negativamente il mondo puro della beata giovinezza – incisiva la scena tra il “giustiziere” camorrista Bernardino (Carmine Paternoster) e Veronica.
Per quanto ci siano mille sfumature tra il bianco e il nero e l’intervallo che spezza la routine ce lo fa percepire e vivere; di fronte a realtà sociali così invasive e spesso distruttive, L’intervallo sembra suggerirci il monito per cui «o è nero o è bianco. Scegli»!

Maria Lucia Tangorra

NOTE
L’intervallo «è una risposta, opposta e complementare a quella del mio documentario Cadenza d’inganno, alla domanda di come raccontare la realtà» – Leonardo Di Costanzo. Nel doc del 2011, Di Costanzo raccontava di un ragazzino dodicenne, scelto per essere il protagonista di un documentario sull’adolescenza in un quartiere popolare di Napoli. Dopo alcuni mesi di riprese, interrompe le riprese costringendo a mettere in stand-by il film. Dopo 8 anni Antonio invita il regista al matrimonio permettendo di concludere il film.

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