Viaggio in Ucraina
Presentato al Filmmaker Festival 2019, dopo un percorso festivaliero cominciato con il Cinéma du Réel di Parigi, La strada per le montagne parte come un’indagine personale nei ricordi, offuscati, della propria famiglia da parte dell’autrice Micol Roubini. Il tutto prende il via da ritrovamenti di documenti e oggetti, in particolare la foto della sua casa di famiglia, di suo nonno, ebreo, emigrato in Italia nel 1957 dal villaggio di Jamna, situato tra Ucraina e Polonia, in cui era nato nel 1923. Documenti e ricordi da cui trapela l’uccisione dei suoi famigliari nell’ambito dello sterminio degli ebrei. Il tutto sembra richiamare lo schema, pur nel diverso svolgimento che in questo caso non utilizza footage preesistente ma le riprese del viaggio fatto da Micol Roubini alla scoperta delle proprie radici, di quello che è diventato un grande classico del documentario italiano, vale a dire Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi. La ricerca dei rimossi famigliari, di un passato sepolto e impolverato, scomodo, su cui era calato il silenzio e la rimozione. Partendo comunque da documenti, pochi quelli a disposizione di Micol Roubini a confronto, soprattutto i documenti dell’emigrazione, il passaporto, l’elenco dei beni che il nonno si è portato in Italia, alcune fotografie.
La voce off della regista, calda, pacata, che introduce e conduce durante il film, ci riporta all’analogia di cui sopra. Tuttavia questa prima scena, l’apertura dello scrigno di ricordi, porta in realtà alla peculiarità e originalità del lavoro di Micol Roubini. Mentre scorrono le immagini dei pochi oggetti lasciati dal nonno, oltre ai documenti, tazze, bicchieri, un samovar, dei vestiti, la voce off della regista parla di altro, di quella fotografia della casa del nonno, scattata nella primavera del 1919, quell’immagine mancante la cui ricerca è il motore del film. La regista realizza così un’ulteriore enunciazione della filosofia della sua opera, qui tradotta nella non corrispondenza tra immagini e parole, cosa su cui si giocano altri momenti del film con voce off dove il flusso di immagini e quello verbale, viaggiano su due binari separati. Anche quando viene letto l’elenco dei beni del nonno all’epoca dell’immigrazione, in una lettura che parte dalla solita voce off per proseguire con la voce, diegetica, di un personaggio. La non corrispondenza tra parola e immagine, racconto e realtà, caratterizza tutta l’indagine che Micol Roubini fa nel villaggio del nonno e il percorso di La strada per le montagne, partito come ricerca delle proprie origini, porta a territori pirandelliani, o ad atmosfere degne della scrittrice Ágota Kristóf. Le contraddizioni delle testimonianze, dei ricordi degli abitanti del villaggio, le loro omissioni, le tante imprecisioni e lacune su fatti sepolti dal tempo: anche quando si crede di essere arrivati alla verità della ricostruzione, non può non permanere il dubbio.
Le persecuzioni antisemite, la guerra, la lotta partigiana. Il villaggio di Jamna ha in comune questo passato con buona parte dell’Europa, il senso di desolazione che trapela in La strada per le montagne appartiene a un’eredità post-sovietica. Jamna sembra far parte della Zona di Stalker, un territorio presidiato da militari a tutela di non si sa cosa, o di qualcosa che non c’è più, residuo sovietico ormai senza senso, come quelle guardie in marcia al mausoleo di Lenin. Allo stesso tempo, andandosene, l’Unione Sovietica, ha fatto mancare anche il suo apporto di benessere, il sanatorio è stato chiuso. E ora si percepisce anche un eco del conflitto con la Russia per la Crimea. Se, vuole la vulgata, il documentarista deve rendersi invisibile, non far percepire la propria presenza e quella delle sue macchine da presa per non influenzare l’oggetto del film, Micol Roubini si pone in antitesi, dichiarando la presenza sua e della troupe nell’includere la contestazione, l’opposizione diffusa all’atto di filmare. I filmmaker registrano il fastidio della loro presenza, come se ci fosse qualche segreto del villaggio che potrebbero violare. La cassiera del museo contrariata dalle riprese, o la guardia che si avvicina intimando di spegnere la telecamera in una scena che viene restituita in un lungo pianosequenza che corrisponde all’avvicinarsi dell’uomo minaccioso. Per contro abbiamo tanti momenti di vita genuina, i goffi balli nella balera, i militari decorati nelle loro commemorazioni, le preghiere alla messa.
Alla ricerca di una verità famigliare che si rivela come una chimera, ormai inconoscibile, Micol Roubini rileva un territorio metafisico, con palazzoni fantasma, con un cancello onnipresente, che è il punto focale di separazione degli spazi, e con quella natura imponente, soprattutto quando è ammantata dalla neve, che incombe su tutto.
Giampiero Raganelli