L’anello di congiunzione
Per Gianluca Salluzzo il Filmmaker Festival è cinematograficamente parlando come una seconda casa. Negli ultimi anni, infatti, la kermesse milanese lo ha visto crescere artisticamente e umanamente, da prima invitandolo a fare parte della giuria giovani nel 2016 e poi nelle vesti di regista nel 2017 con il cortometraggio Io ci sono ancora. Un rapporto, questo, che nell’edizione 39 della manifestazione meneghina ha avuto modo di rinnovarsi con la presentazione nella sezione “Prospettive” del nuovo lavoro del cineasta napoletano dal titolo The Pavilion.
La camera di Salluzzo ci porta nel parco Robinson di Milano, fra i palazzi del quartiere Moncucco e la circonvallazione di Famagosta. Lì sorge la struttura che presta il nome di battesimo al documentario in questione, che altro non è che un ampio campo di basket circondato da una struttura in legno alta 12 metri, ricavata dal padiglione della Coca Cola Company di Expo 2015. La zona è diventata punto di ritrovo per la comunità filippina del capoluogo che ogni giorno si dà appuntamento per sfidarsi senza risparmio sotto il canestro, chiacchierare tra amici, passeggiare in famiglia, ascoltare musica, ballare, giocare a carte, celebrare feste e compleanni. Il basket è retaggio dell’occupazione statunitense ma i filippini se ne sono appropriati trasformandolo in sport nazionale. Per chi vive in Italia, si tratta di un anello di congiunzione tra il passato e il presente, tra i genitori sradicati e i figli cresciuti con un’identità culturale complessa coltivata ascoltando cantanti di lingua tagalog, guardando programmi televisivi trasmessi dalla madre patria e leggendo le notizie sui media online dell’arcipelago. Il basket è però anche un veicolo di incontro con altri sportivi non filippini che convergono sul campo in occasione di tornei e festival in una città ormai meticcia. Per un anno intero, il documentario segue lo scorrere del tempo nell’area, i lavori di manutenzione, i diversi effetti che la luce proietta sul campo da gioco a seconda delle stagioni, il cambiamento ciclico delle attività ricreative, degli abiti e delle relazioni che si tessono tra i muretti e sui prati sotto gli aceri.
La ciclicità e lo scorrere delle stagioni rappresenta l’unica, scontata e ormai abusata linea narrativa rintracciabile nella timeline di The Pavilion, usata dal regista partenopeo per cucire insieme i pezzi del classico documentario di osservazione di natura socio-antropologica. Soluzione che nel suo caso non sortisce però gli stessi esiti di operazioni analoghe e sicuramente più riuscite come Il castello di di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Los Reyes di di Iván Osnovikoff e Bettina Perut o De Sancto Ambrosio di Antonio Di Biase. L’intento di conseguenza è quello di catturare e restituire la realtà senza interagire con essa, senza manipolarla, plasmarla o alterarla nelle dinamiche o spostarne gli equilibri. E in effetti, ciò che ne deriva fa volutamente a meno delle interviste frontali a chi quei luoghi li frequenta più o meno assiduamente, captandone semmai di tanto in tanto brandelli di discorsi, a favore di un racconto per immagini che si pone come obiettivo principale, oltre a testimoniare un esempio riuscito di integrazione e accoglienza, quello di accompagnare lo spettatore alla scoperta di un luogo che si è fatto cuore pulsante e d’incontro per una comunità, quella filippina. Comunità che ha trovato in quella topografia, e nelle aree circostanti, l’occasione per rimanere attaccata alle proprie radici, nonostante la lontananza dalla terra di origine.
Qui l’autore entra in punta di piedi, scegliendo di volta in volta la distanza giusta e necessaria dalla quale raccogliere le immagini, quest’ultime sempre e rigorosamente fisse per assecondare geometricamente il più possibile le linee naturali e le architetture del Pavilion. Ciò gli riesce bene, almeno dal punto di vista formale, perché al contrario fotograficamente i difetti sono piuttosto evidenti e si palesano soprattutto nelle riprese diurne, nella stragrande maggioranza dei casi bruciate e sovraesposte. La scelta di fare tutto in autonomia, dalla regia al montaggio, dal suono alle riprese, è probabilmente la causa di un handicap che visivamente alla lunga finisce con il pesare moltissimo sulla fruizione. Fruizione che viene appesantita ulteriormente dall’eccessiva durata, a nostro avviso ingiustificata. Forse l’affidarsi a un altro montatore avrebbe giovato in tal senso, così come l’avere avuto a disposizione una troupe, seppur minima, avrebbe dato più solidità e qualità alla confezione.
Ma il limite più grande di The Pavilion è purtroppo un altro: se nell’invisibilità raggiunta dalla macchina da presa c’è un elemento di pregio del film, al contrario il risultare un corpo completamente estraneo al tessuto mostrato non consente allo spettatore di entrare in nessun modo in empatia con i soggetti che lo popolano. Ciò sottrae in larga misura interesse e rende ancora meno stimolante la visione, a maggior ragione se questa si estende sino a novanta minuti.
Francesco Del Grosso