Provaci ancora, Rex
Sin dal primo, indimenticabile Jurassic Park, il T-Rex è stato uno dei dinosauri più iconici (e terrificanti) della popolarissima saga. Del resto lo sapeva anche Ryu, il ragazzo delle caverne, nipponico anime fondato su (più o meno) innocenti anacronismi, quanto potesse essere impegnativa e faticosa la fuga, di fronte a un tirannosauro inferocito!
Pure in questo settimo capitolo, Jurassic World – La rinascita, nonostante i dinosauri in questione vengano descritti quale risultato di esperimenti in laboratorio e ibridazioni, vi è a un certo punto un carnivoro bipede dalle fattezze simili, che però al momento di inseguire alcuni fuggitivi in canotto (quest’ultimo praticamente indistruttibile e a prova di morso: se lo mettessero in commercio, avrebbe grande successo) si rivela oltremodo pigro, svogliato, goffo. E ciò non ci sembra affatto casuale, considerando che nel prosieguo del film farà la sua apparizione un’implacabile versione mutata del noto carnivoro, il pittoresco Distortus Rex (come ci risulta sia stato ribattezzato), su cui sarà bene spendere qualche parola più avanti e che rappresenta comunque l’elemento più problematico e criticabile di tale operazione.
Presentati così alcuni dei principali motivi di scetticismo, c’è da dire che il britannico Gareth Edwards ha fatto ancora una volta, complessivamente, un buon lavoro: il suo agire sulle saghe di maggior successo, come dimostrano anche Godzilla (2014) e Rogue One: A Star Wars Story (2016), pare fondarsi tanto sul rispetto delle aspettative del pubblico che su consolidati schemi narrativi, attraverso i quali si tiene alto il ritmo del racconto e si dà alla missione dei protagonisti l’impronta di un’impresa temeraria e disperata.
Insomma, come filmone d’avventura, come entertainment cinematografico, Jurassic World – La rinascita funziona anche parecchio. L’idea di ambientare la storia cinque anni dopo gli eventi di Jurassic World – Il dominio e in una remota isola tropicale, tra i pochi luoghi dove si sarebbero asserragliati, per ragioni climatiche, i sauri superstiti, se da un lato ridimensiona l’accattivante prospettiva di veder convivere (non sempre pacificamente) sul resto del pianeta umani, dinosauri e altre specie animali, dall’altro presta accortamente il fianco alla rielaborazione di uno dei tanti “mondi perduti” affrescati dal cinema fantastico del passato. Non saranno certo gli indimenticabili mostri realizzati con gli effetti artigianali di Ray Harryhausen, ma i vari Titanosauri, Spinosauri, Mesosauri, Parasaurolofi e Pteranodonti avvistati nel film, assieme alla cornice esotica, suggeriscono tale idea.
Per gli amanti dei dinosauri godibilissimo è anche il fatto che si conceda più spazio, rispetto ai precedenti film, alle specie acquatiche e ai rettili alati, aprendo così nuovi orizzonti intorno alla complicata lotta per la sopravvivenza degli umani protagonisti. A costoro, per inciso, spetta una missione al bivio tra millantate intenzioni filantropiche e interessi reali della solita, spregiudicata multinazionale: Zora Bennett (una Scarlett Johansson in grande spolvero), agente sotto copertura, viene infatti reclutata da tale azienda farmaceutica per collaborare col paleontologo Dott. Henry Loomis e con il capo squadra Duncan Kincaid a una missione segretissima, poiché da svolgersi in territori cui accedono ormai solo i militari e altri agenti governativi. Il loro obiettivo è infiltrarsi nell’isola proibita, un tempo sede dell’istituto di ricerca originale di Jurassic Park, per localizzare i più grandi animali preistorici della terra, del mare e del cielo, così da propiziare il brevetto di un farmaco rivoluzionario ottenibile solo grazie al particolare DNA di tali creature. L’avventura però avrà molteplici imprevisti, tra cui il salvataggio di una famigliola di naufraghi, trascinati poi a forza in quel luogo remoto e selvaggio.
Sacrifici eroici. Morti assurde. Salvataggi in extremis. Il ricettario, per quanto concerne la componente action, è piuttosto ampio. E funziona decisamente bene! Rivedibilissimo invece, per usare un eufemismo, l’inserimento del già menzionato Distortus Rex, tirannosauro degenere con ben sei arti e dimensioni mastodontiche, nelle cui grottesche sembianze paiono ibridarsi un po’ troppo spregiudicatamente modelli come Alien o come i classici kaijū eiga notoriamente cari al regista. Qui bastava anche meno, Mr. Edwards. Se perciò la prima sinistra apparizione del Rex modificato, complice l’avventatezza di un tecnico di laboratorio troppo innamorato del junk food (e questo potrebbe essere uno dei messaggi più utili, interessanti del film), regalava le giuste dosi di angoscia e terrore, vederlo riapparire ripugnante e maestoso sul finale lascia più che altro l’impressione di un ospite che nessuno aveva invitato. Non gli altri dinosauri, di sicuro.
Stefano Coccia