Un laboratorio teatrale diverso dagli altri
Vorrei tornare indietro
Per rivedere il passato
Per comprendere meglio
Quello che abbiamo perduto
Viviamo in un mondo orribile
Siamo in cerca di un’esistenza
Franco Battiato, “Passacaglia”
Sempre attento al sociale, il cinema del toscano Antonio Morabito, sia che prenda forma documentaria sia che diventi opera di finzione. Mai però in modo scontato. Anzi, quel suo attraversare le vicende degli anarchici in Non son l’uno per cento – Anarchici a Carrara (2007) per poi passare al setaccio, con Il venditore di medicine (2014), certe altre contraddizioni della società contemporanea, rivela comunque un retroterra umanistico che non fa sconti al sistema capitalistico ponendo però al centro della narrazione scelte etiche individuali e/o atti coordinati di resistenza.
Coerente con questo percorso è senz’altro Indietro così, il documentario intercettato alle Notti veneziane dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Un po’ come negli ammirevoli lavori del Teatro Patologico, vedi Io sono un po’ matto… e tu? o il più datato L’uomo Gallo, la partecipazione di pazienti psichiatrici a determinate esperienze artistiche ha un indubbio valore terapeutico, che può essere rapportato al singolo come alla collettività stessa che almeno nelle sue componenti più sensibili ne trae beneficio.
Se poi grazie alle attività del Teatro Patologico abbiamo conosciuto una figura di riferimento generosa qual è senz’altro Dario D’Ambrosi, in Indietro così mattatore indiscusso è Stefano Romani, regista teatrale “sui generis” che vediamo agire con creatività e apprezzabile autoironia in periferie della capitale dove la vita è già difficile di suo. Figuriamoci, allora, quanto può esserlo per coloro che devono relazionarsi anche con altre problematiche, che risiedono nella testa come pure in contesti famigliari precari, difficili.
In quanto operatore sociale Stefano è l’artefice di laboratori teatrali che danno la possibilità a persone come Barbara, Cinzia, Daniele, Marco, Rosaria, Benedetta e altri di non restare ancorati a quella zavorra, rappresentata di volta in volta dall’autismo, dalla schizofrenia o da altre disabilità psichiche, procedendo così senza eccessive pressioni a un’esplorazione di se stessi la cui funzione catartica è evidente. E lo è ancora di più allorché lo spirito libertario, il sanguigno umorismo e altre qualità umane di Stefano pongono tutti loro nella condizione di esprimersi.
Nel film quella leggerezza di fondo, percepibile anche nelle riprese ariose e nelle altre scelte registiche di un Antonio Morabito che si mette sempre al servizio delle relazioni interpersonali, dell’espressività dei volti e dei corpi, corrobora il senso di tali esperienze teatrali e assorbe, in una certa misura, anche i traumi più profondi. E così la colonna sonora ideale di un simile percorso esistenziale non può che essere la splendida Passacaglia di Franco Battiato.
Stefano Coccia