Kurdistan: il tassello mancante
Si può tranquillamente dire che la questione curda, con la sua drammaticità, abbia rappresentato uno dei sotterranei fil rouge di queste prime giornate del Trieste Film Festival 2024. Abbiamo avuto già modo di accennare al documentario Translating Ulysses (Ulysses Çevirmek, 2023) di Aylin Kuryel e Firat Yücel, inserito qui in un Omaggio a Joyce molto ben concepito, laddove la traduzione in curdo di quella che viene considerata l’opera più complessa dello scrittore irlandese fungeva da viatico, tra le altre cose, a una denuncia della pluridecennale oppressione politica, sociale e culturale in quella parte del Kurdistan, soggetta al controllo della Turchia.
Ed ecco ora In the Blind Spot (titolo originale Im toten Winkel, 2023). Collocato invece in Wild Roses, succosa sezione del festival triestino dedicata quest’anno alle voci femminili più importanti della cultura cinematografica tedesca, codesto lungometraggio di finzione dimostra come intrecciando cinema di impegno politico e determinate tracce “di genere” si possano avere, a volte, esiti formidabili anche sul piano del coinvolgimento emotivo. Ne è autrice Ayşe Polat, regista, sceneggiatrice e produttrice curdo-tedesca nata a Malatya, in Turchia, e cresciuta ad Amburgo.
Memore della lezione di Rashomon o di altre analoghe, Ayşe Polat articola in tre atti corrispondenti peraltro a tre punti di vista diversi, a tre differenti angoli di osservazione, un plot labirintico, nel quale traumi del passato e traumi del presente sono destinati a sovrapporsi inesorabilmente. In pratica un livido noir politico, esistenzialista, attraverso il quale è il “fantasma” dell’oppressione dei Curdi e dell’autoritarismo turco a manifestarsi. Talvolta persino in modo “letterale”. Così da incastonare anche, sottotraccia, un piccolo elemento “misterico”, in quel fitto reticolato di omertà, rimozioni, paranoie, asfissiante controllo poliziesco e delitti di Stato sempre pronti a ripetersi, in quanto i primi non sono mai stati riconosciuti e puniti.
Pretesto dell’azione è qui la “visita” di una troupe tedesca a una città turca del nord-est, dove parecchi anni prima sono avvenuti sequestri e omicidi politici ai danni della popolazione curda. Ma il clima generale, come avremo modo di constatare, non è cambiato poi di molto…
L’intelligenza di Ayşe Polat è anche quella di spostare continuamente il fulcro della narrazione. E quindi della percezione stessa della realtà. Vi sono ad esempio gli stranieri della troupe che sta lavorando al documentario, il cui spaesamento di fronte a un contesto simile appare evidente. La bambina, che in modo empatico e “recettivo” percepisce istintivamente le violenze consumate in quei luoghi. L’anziana madre del “desaparecido” curdo che attraverso un singolare rito gastronomico tutt’ora richiama l’attenzione della collettività sulla scomparsa del figlio. I sinistri e spietati emissari dell’apparato repressivo turco. E poi Zafer, personaggio di confine e possibile epicentro del racconto, poiché di quel sistema poliziesco è stato parte integrante ma paradossalmente, beffardamente, si trova sul punto di esserne travolto e schiacciato.
Incredibilmente maturo sia per quanto riguarda l’approccio ai temi che sotto il profilo stilistico, di una regia certosinamente attenta a ogni dettaglio, In the Blind Spot si impone pure quale teorema sulla visione mai fine a se stesso, sempre foriero di conseguenze. Ciascuno dei segmenti che compongono il film, attraverso la prassi della sorveglianza e del pedinamento di altri personaggi, raccoglie indizi, angoli di ripresa e punti d’osservazione rivelatori; lo sono davvero, rivelatori, sia quando è la vigilanza di Stato a disporre le sue carte sul tavolo, con esiti terrificanti e barbarici, sia quando è una tenue ma risoluta pista “soprannaturale” a farsi valere, riproponendo in una chiave eccentrica e soprattutto simbolica il punto di vista delle vittime.
Il “punto cieco” (del titolo) quale gancio cui aggrapparsi, per ricostruire possibili verità: una notevole dichiarazione di poetica, questa, che inserisce a nostro avviso Ayşe Polat in quel ristretto plotoncino di cineasti, quali possono essere Rithy Panh o il Campanella de Il segreto dei suoi occhi (El secreto de sus ojos, 2009), temerariamente lanciatisi attraverso lo strumento audiovisivo – e il richiamo ai generi, almeno in qualche caso – alla ricerca del “tassello mancante”; quello che certo cinema può ancora permettersi di mettere nel mirino, quando grandi tragedie umane cadono nel dimenticatoio e la cultura ufficiale tace.
Stefano Coccia