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Horizons

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VOTO: 7

Anatomia di un delitto

Un po’ come in La Isla Mínima di Alberto Rodríguez, bel thriller iberico uscito non molti anni fa, anche nel cupo lungometraggio diretto dal serbo Svetislav Dragomirović quei paesaggi acquitrinosi che fanno da cornice alla vicenda si configurano, con la loro vischiosa e oscura densità, quale elemento del racconto tanto materico e reale quanto metaforico. Le ossessioni dei personaggi di Horizons hanno la stessa consistenza del fango presente in loco. E finiscono per minarne i già delicati equilibri personali, famigliari, avviluppandoli a una intricata rete di segreti, gelosie, eventi traumatici, sentimenti repressi a fatica e rabbie difficili da contenere. Da questo magma che di continuo ribolle non può che scaturire qualcosa di tragico e intimamente devastante. Anzi, per dirla tutta, qui la tragedia s’affaccia proprio all’inizio: quella che a prima vista sembrerebbe una banale lite tra fratelli si conclude con un assurdo omicidio in barca. Non così assurdo, stando a ciò che scopriremo più avanti. Forte della sua anomala struttura narrativa, che procedendo a ritroso ci mostra tramite svariati flashback e salti temporali le dolenti premesse dell’episodio, per poi virare malinconicamente verso le conseguenze dello stesso, Horizons prende forma di rebus cinematografico in cui tutto torna, alla fine, permettendo allo spettatore di far luce su quei rapporti umani insoddisfatti e malati, che sono alla base del dramma.

In concorso al XVI° Ravenna Nightmare Film Festival, quello serbo è l’ennesimo esordio cinematografico proposto durante la kermesse romagnola, da cui emerge una personalità registica esuberante, dotata, vivace, per quanto non del tutto formata. Come dicevamo poc’anzi, la struttura narrativa che l’autore ha concepito è senz’altro interessante e ambiziosa. Quasi una rilettura del cinema di Nolan, per certi aspetti, in cui il diversificarsi degli angoli di ripresa e il ripetersi di alcune scene chiave dal punto di vista dei differenti personaggi coinvolti rappresenta, però, un’altra enorme potenzialità. Non sfruttata fino in fondo, a nostro avviso. Un lieve imbarazzo nello girare le poche scene di violenza fisica (per niente incisivo ci è sembrato, ad esempio, l’assassinio della donna nella palude) ed il tono un po’ monocorde di certi confronti tra i protagonisti, risolti raffreddandone eccessivamente il quoziente emotivo, rischiano di sottrarre intensità all’opera. Insomma, il regista a volte sembra preoccuparsi parecchio della scelta dell’inquadratura e molto meno della direzione degli interpreti, alcuni dei quali se la cavano comunque bene, mentre altri appaiono decisamente più legnosi. A volte, così, la scorrevolezza di questo teso racconto cinematografico tende a incepparsi, lasciando però sensazioni forti laddove prevale l’essenzialità delle azioni intraprese o in corrispondenza dei dialoghi di maggior spessore.

Stefano Coccia

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