Raging Girls
I ruggenti anni ’80 hanno cambiato radicalmente la società occidentale. La musica disco dominava le classifiche musicali, ma è la televisione a rivoluzionare la cultura dell’epoca. Basta blocchi, non esistono più tabù che tengano in nome del successo e dell’audience che diventava in quel periodo lo strumento essenziale per le emittenti televisive che potevano così, grazie agli introiti pubblicitari, quantificare in denaro la riuscita di una trasmissione. Così come è accaduto nel nostro paese, anche negli Stati Uniti era in atto una forte trasformazione, con programmi che irrompono sul piccolo schermo per il loro carattere nuovo, e, soprattutto, per essere totalmente fuori dagli schemi. La stessa Ruth, aspirante attrice e una delle protagoniste di questa storia, vuole qualcosa di diverso, di non convenzionale, tanto da leggere inizialmente la parte maschile in uno dei tanti provini a cui lei spesso partecipa nella speranza che un giorno venga presa in una grossa produzione hollywoodiana. Nel frattempo arriva una proposta, un casting insolito all’interno di una vecchia palestra abbandonata. Le ragazze pensano subito a un film alla Scorsese, o a una versione femminile di Rocky, che di successo ne ha dato alla boxe vista l’interpretazione dello Stallone di origine italiana. E invece no. Un regista sta cercando delle wrestler pronte a comparire in un programma che le vedrà lanciarsi dall’angolo del ring in nome della gloria, e, si spera, della fama.
Questo, signore e signori, è Glow, la serie appena sbarcata su Netflix. Le Gorgeous Ladies of Wrestling in questa prima stagione si cimentano per la prima volta in un mondo a loro estraneo e incomprensibile. Come è possibile che alla gente piaccia realmente questo sport, finto dall’inizio del match e con atleti truccati e travestiti con strane tute che scimmiottano un personaggio assolutamente inventato? Semplice, perché la gente ci crede. Il regista alcolizzato Sam Sylvia, nella fase di selezione delle varie attrici che secondo lui sono idonee a questo genere di spettacolo, afferma in maniera schietta alle ragazze come la gente effettivamente guarda un programma in televisione. Al pubblico non interessa minimamente che due uomini o donne se ne danno di santa ragione, o meglio fino a un certo punto. Per rendere tutto maggiormente interessante e avvincente è importante tutto ciò che sta attorno al ring: il racconto, o, in termini anglosassoni, lo storytelling. Per accalappiare una fetta consistente di pubblico, bisogna che questi si immedesimino in quanto realmente vedono. Se in uno strato apparentemente superficiale ci si trova in un match che mischia adrenalina ed emozioni, una sensazione che viene percepita da chi per la prima volta si sintonizza su quella trasmissione, in uno strato più profondo è nascosto un lavoro estremamente acuto e accurato degli autori dello spettacolo, che mettono in scena una visione stereotipata della realtà. Non dimentichiamoci che è una gara di wrestling, dunque l’impianto narrativo deve essere minimale e comprensibile a tutti.
La straordinaria intelligenza degli autori (veri) di Glow, Liz Flahive e Carly Mensch, è di aggiungerne un terzo, fondamentale, strato, mostrando il dietro le quinte di quello che diventerà uno show davvero molto seguito sul suolo nazionale, grazie a riprese che mostrano la vita delle diverse attrici e le loro paure che diventeranno uno spunto rilevante nella creazione della loro maschera, giocando sulle distinzioni sociologiche di ribalta e retroscena secondo la teoria goffmaniana. Davanti al pubblico i personaggi assumono un ruolo preciso, adattandosi a quella determinata situazione in modo da essere accettati dalla gente. Tuttavia è quando questo rapporto si spezza, e lo spettatore (o un caro) interagisce accedendo anche nel retroscena della persona, un luogo familiare e dove ci si sente al sicuro, che si mette a rischio non solo la riuscita della rappresentazione ma anche la sua stessa incolumità.
La serie funziona per il doppio gioco che compie in questi primi 10 episodi. È un racconto semplice che scorre con leggerezza, ma contiene diversi spunti profondi che si rivolgono soprattutto alle donne che davvero vogliono cambiare le regole nello sport, come nella vita.
Riccardo Lo Re