Identità in fuga
Nel 1915 Jack London pubblicò “Il vagabondo delle stelle”, in cui il narratore è sottoposto a torture fisiche così intense da subire un’anamnesi: la perdita della dimenticanza. Riesce a ricordare tutte le sue vite passate. Dopo le torture viene condannato a morte, ma nessuno può soffocare la sua immortalità. Quel libro e le sue suggestioni, mescolate con l’esperienza di paternità e un incontro casuale del regista con un vagabondo, hanno dato vita alle idee principali dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Luis Ortega dal titolo El Jockey, in uscita nelle sale nostrane il 17 luglio con Lucky Red dopo la presentazione in concorso all’81esima edizione della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia.
Il regista argentino, senza alcun dubbio tra i più originali del cinema latinoamericano contemporaneo, torna con un film in cui esplora i temi dell’identità e del riscatto attraverso la storia di un giovane e leggendario fantino di nome Remo Manfredini, il cui comportamento autodistruttivo ha iniziato a metterne in ombra il talento e a repentaglio la relazione con Abril, la fidanzata, che da lui aspetta un figlio. Durante una gara importante, Remo ha un grave incidente e finisce in coma: al suo risveglio assume un’identità femminile, con il nome di Delores, e vaga per Buenos Aires in stato confusionale. I gangster, consapevoli che da lui non potranno più ricavare un centesimo dei debiti che ha contratto con loro, gli danno la caccia per toglierlo di mezzo.
Nella galleria cinematografica del regista di San Miguel de Tucumán troviamo nuovamente una figura borderline e ai margini della società come era stato per pellicole quali Caja negra e L’angelo del crimine. Il Remo di El Jockey non fa eccezione e diventa l’ennesima occasione per l’autore, definito il Rimbaud del cinema argentino, per esplorare l’imprevedibilità e il mistero della natura umana. Lo fa con e attraverso le disavventure e mutazioni fisiche e astratte del magnetico protagonista di un’opera fluida, bizzarra, però non priva di fascino, ma a conti fatti purtroppo irrisolta. Un’irresolutezza che emerge dalla visione di una pellicola che ha nella fragile e nebulosa mescolanza di bizzarro, surreale e comico nel quale sono immersi da cima a fondo la scrittura e i personaggi che la animano, comprese quelle centrali, il tallone d’Achille. Questo sta con moltissima probabilità nell’accumulo e nella conseguente perdita di controllo dell’enorme mole di suggestioni, registri, immaginari, reference (da Kaurismaki a Lynch, da Refn ad Almodovar, passando per Buñuel) e generi (dal drammatico alla commedia grottesca e surreale, passando per il melò e il gangster movie) chiamati in causa da Ortega, gettati dallo stesso in una centrifuga senza dosarne gli ingredienti. Manca dunque l’equilibrio e la giusta misura, con i singoli ingredienti che vanno a sovrastarsi uno all’altro. Il ché restituisce un corpus disomogeneo e squilibrato che impedisce allo spettatore di entrare veramente nella storia, di appassionarsi e lasciarsi trasportare ad e da essa.
Il tutto nonostante le performance di Nahuel Pérez Biscayart (Remo) da una parte e di Úrsula Corberó (Abril) dall’altra che rendono i personaggi intriganti e alcune delle scene a loro modo coinvolgenti, a cominciare da quegli intermezzi danzereschi che entrano a gamba tesa sullo spettatore durante la fruizione.
Francesco Del Grosso