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Duse

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Duse
VOTO: 8

Vivere per il teatro

I soldatini sono a terra e intanto in lontananza si sente un’aria. Poco dopo appare lei, con un velo nero e accanto la fedele Desirée (Fanni Wrochna). Attraversano le nuvole come se fosse un sogno, ma la realtà è ben più ‘cruda’: Eleonora Duse (Valeria Bruni Tedeschi) si è recata presso i soldati al fronte e prova a incoraggiarli dicendo loro: «vincerete e presto sarete nelle vostre case». Ma la più grande attrice del mondo (appellativo conferitole dal critico Hermann Bahr) non riesce completamente a fingere, mostrando a noi spettatori uno sguardo teso, preoccupato perché nulla è scontato, anche se, come afferma il medico «forse l’arte ci può salvare o quantomeno consolare». Inizia così Duse, l’ultimo lavoro di Pietro Marcello presentato in Concorso alla 82esima Mostra del Cinema di Venezia. I tempi sono duri anche per questa donna così tanto ammirata sul palcoscenico, il vaso di Pandora si scoperchia quando arriva la notizia del fallimento della banca di Berlino dove aveva i propri risparmi: non ha più nulla. Anche la salute è precaria eppure da qualcosa sente di dover ricominciare: il teatro. Non è solo il desiderio di recitare a muoverla, ma un’urgenza profonda: la necessità di riaffermare se stessa. La scatola magica diventa ancora una volta un luogo in cui potersi esprimere e resistere (vincendo anche il timore di ritornare dopo il ritiro dieci anni prima). Torna a Venezia e sceglie di mettere in scena “La donna del mare” di Ionesco ed è da pelle d’oca la scena in cui la Divina arriva nel corso delle prove e si ‘scontra’ con Caterina Rinaldi (Gaja Masciale di cui si coglie il background teatrale nell’accezione migliore del termine) – una lezione di teatro e di vita senza salire sul pulpito. In compagnia anche Memo Benassi (molto in parte Vincenzo Nemolato) ed Ermete Zacconi (Mimmo Borrelli) con quest’ultimo che cerca di ‘dirigere’ ma poi sa che inesorabilmente deve piegarsi di fronte a un’artista che riempie la scena, anche col costume più semplice. È un trionfo, col blu del mare del Nord che rivive negli occhi dell’attrice che dà corpo al personaggio di Ellida.
«Dietro i grandi successi della “Divina” si nascondevano fallimenti altrettanto sensazionali che sono a mio avviso una delle chiavi più interessanti per comprenderne la profonda umanità. Non volevo raccontare semplicemente chi fosse la Duse attraverso un biopic, ma raccontare l’anima di una donna nel suo tramonto», ha scritto nelle proprie note il regista di Martin Eden. «Eleonora fu una donna condannata dal proprio talento e dalla sua visione rivoluzionaria del teatro a trovare una dimensione di grandezza solo sul palcoscenico. Nella vita reale, si scontrò con i limiti propri e della società del suo tempo. Un’artista è sempre figlia del suo tempo: Duse, invece, era irrimediabilmente in anticipo. Nonostante questo, è stata capace, tra mille peripezie, di condurre la sua compagnia oltre le montagne, proprio come un regista fa con la sua troupe. Il film è quindi un’epopea paradossale. La scelta di concentrarsi sugli ultimi anni della sua vita, tra il 1917 e il 1923, è venuta naturalmente. In quel periodo, Eleonora affronta il suo bilancio finale: con l’arte, con il proprio corpo, con la maternità, con D’Annunzio, con la storia d’Italia. L’incontro tra la Duse e la grande storia mi offre tra l’altro la possibilità di indagare altri temi che mi coinvolgono: da una parte il ruolo dell’artista di fronte a tragedie come la guerra, la povertà e il dolore e dall’altra le possibili declinazioni del rapporto tra arte e potere». Fausto Russo Alesi, il quale già ci ha colpiti in più occasioni (dal Cossiga in Esterno Notte a Momolo Mortara in Rapito per citarne due), restituisce un D’Annunzio diverso dall’immaginario a cui ci hanno abituati: è sì preso dalla discesa in campo, ma prima di affacciarsi davanti alla gente, nello scambio con la Duse usa un tono convinto, ma al contempo non esaltato. Ancor più significativo è il momento in cui lei sente di dover andare a trovarlo e in effetti il poeta non sta bene perché è l’uomo lacerato dentro. Un filo rosso tra loro che scorre anche quando lei afferma di non mettere più in scena sue opere, persino quando non lo cita. La Bruni Tedeschi veste i panni di una donna che sa di non poter venir meno alla propria natura, ne è consapevole e ce lo dimostra a ogni ‘piccola’ caduta. Si cala in quelli di un’attrice che sa di poter respirare solo sul palco («Mi resta solo il veleno che è il mio veleno, ma anche il mio ossigeno… è la mia cura», dice). Si empatizza con una figlia, Enrichetta Marchetti (Noémie Merlant), che cerca di essere vista dalla madre e ci si interroga (senza alcun giudizio) su come si possa trasmettere amore a chi si è generato. Cosa è sacrificabile in virtù del teatro, dell’arte? Alla visione una ‘possibile’ risposta.
Nella cura della messa in scena non si possono non citare i costumi di Ursula Patzak e le scenografie di Gaspare De Pascali grazie ai quali, ancor più in alcuni istanti, sembra di vedere un quadro (vedi quando lei va nell’atelier di Mariano Fortuny, interpretato da Marcello Mazzarella).
Concludiamo rilanciando le parole di Marcello: «Tra le suggestioni del film, c’è la figura del Milite Ignoto. Quel treno che attraversa l’Italia, trasportando il corpo senza nome di un soldato, diventa simbolo di un Paese spezzato [e coi tempi che stiamo vivendo alcune suggestioni risuonano ancora più profondamente, nda].
Il viaggio è davvero il respiro stesso del film. Duse non si fermava mai: in tutta la sua vita non restò mai più di quaranta giorni nello stesso luogo. Sempre in movimento, come un treno in corsa, sempre alla ricerca. Ecco, questa è la Duse che abbiamo raccontato. Non quella che è stata, ma quella che continua a viaggiare. Come un treno che non si ferma mai».

Maria Lucia Tangorra

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