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Martin Eden

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VOTO: 8

Romanzo di un giovane povero

In un ipotetico manuale della trasposizione da libro ad opera cinematografica, il Martin Eden realizzato da Pietro Marcello meriterebbe in assoluto un intero capitolo a parte. Prosciugato infatti il celebre testo omonimo di Jack London fino alla pura essenza narrativa, il regista casertano lo eleva ai massimi gradi della sua intrinseca concettualità universale, trasportandone la vicende dalla californiana Oakland, nella baia di San Francisco, in una Napoli post-bellica ma atemporale, brulicante di fermenti socio-politici e desideri non celati. In tale contesto si agita – il verbo è da intendere nel più vasto dei significati possibili – la figura esistenziale di Martin Eden, giovane marinaio con l’esplorazione nel sangue. Non di nuovi mondi o civiltà, ma di se stesso e dei proprio limiti. Nel Martin Eden di Pietro Marcello è la fame ad essere sensazione tattile. La fame fisica, intesa come bisogno quotidiano di nutrimento da parte di un personaggio nato nella parte limitrofa della società; ma soprattutto l’appagamento di un insopprimibile appetito spirituale, che vede il protagonista alle prese con l’autentica ossessione di scalare il proprio livello culturale sino ai massimi gradini, vagheggiando di diventare uno scrittore famoso tanto per raggiungere il livello culturale della giovane fidanzata Elena, di rango alto-borghese, quanto per prendersi una sorta di rivincita sul destino che lo ha beffardamente posto sul lato “sbagliato” del corpus sociale. Un classico racconto di formazione, dunque, che Marcello declina però nella sua messa in scena tipica, quasi sperimentale, filtrandolo con inserti visivi che sembrano sorta di libere associazioni mentali del personaggio principale e che ricordano una quantità incalcolabile di cinema e letteratura di tempi remoti.
Quella che ne scaturisce è allora un’opera che ha del prodigioso, capace di rincorrere un linguaggio del passato per catapultarsi in un futuro cinematografico ancora tutto da scrivere. Dal formalismo dei grandi padri sovietici alla modernità di un racconto puramente emozionale, rivestito di quella rabbia che solamente le imprese al limite dell’impossibile, per quel che concerne il personaggio che fornisce il titolo sia al romanzo che al film, riescono a portare in dote al singolo individuo. Martin Eden è un’opera di statura filosofica ma con i metaforici piedi ben ancorati nella realtà, che sarebbe piaciuta ad un Martin Scorsese prima maniera ed attirerebbe l’attenzione di un James Gray – autore con il quale, curiosamente, il film di Pietro Marcello condivide la vetrina del Concorso ufficiale della 76° Mostra del Cinema di Venezia – ovviamente ad anni luce formali di distanza, ma molto vicino a livello concettuale nel rappresentare la continua sfida da intraprendere verso se stessi. La vita come un campo di battaglia dove risulta drammaticamente facile perdere la propria essenza, l’etica del proprio essere, una volta che si è fatalmente compreso come nessuna sfumatura esistenziale sia in realtà di facile comprensione. Quella che per certi versi – e fino ad un determinato punto narrativo del film – potrebbe essere a ragione interpretata come una dichiarazione d’amore alla vita, a Napoli, alle passioni sentimentali e politiche che costituiscono la linfa vitale di qualsiasi individuo, ne diventa, nel memorabile epilogo, quasi il suo esatto opposto. Nella totale disillusione, cioè, che fama ed agio economico, una volta raggiunti, rendano la persona perfettamente assimilabile a ciò contro cui la persona stessa nel passato si scagliava. Un’utopia dal dolore lancinante, peraltro ottimamente testimoniata da un ultima inquadratura in grado di rimanere nella memoria spettatoriale per molto tempo, mimetizzata alla perfezione sulla febbrile interpretazione di un magnifico Luca Marinelli, la cui metamorfosi dallo stupore e la determinazione giovanile al disincanto anarchico e rabbioso dell’età adulta colora il suo personaggio di impietose sfumature di verità assoluta assai di rado raggiunte nell’ambito del nostro cinema.
Sarà anche un’opera ambiziosa e di non facile lettura, il Martin Eden di Pietro Marcello. Ma l’autore dell’altrettanto sconvolgente, in senso ovviamente positivo, Bella e perduta (2015) fornisce in questa sua ultima fatica l’ennesima riprova di un talento unico ed in costante divenire, sempre coerente alla propria poetica senza mai nemmeno sfiorare il rischio strisciante della ripetizione.
Una grande, attesa, conferma.

Daniele De Angelis

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