Diario di una conversione
Nel 1858 il potere temporale della chiesa è sotto il dominio di Pio IX. Sotto suo mandato, una notte di giugno, il piccolo Edgardo Mortara, figlio di una famiglia ebrea, viene sequestrato e portato a Roma: il suo battesimo avvenuto di nascosto dai genitori lo costringe all’educazione cattolica.
Questo è l’incidente scatenante con cui si apre Rapito, l’ultimo film di Marco Bellocchio in concorso alla 76ª edizione del Festival di Cannes. I presupposti per un buon film d’autore, degno dei riconoscimenti del prestigioso festival francese, ci sono già tutti: non solo quelli di una preziosa ricostruzione storica, densa di dettagli e di raffinato senso estetico – l’accurata fotografia di Francesco Di Giacomo, tra Bologna e Roma, tra le carrozze ottocentesche e i salotti borghesi – ma anche quelli di uno sguardo verso il passato in una ricerca storiografica diversa. Una storia non costituita dai fatti e dagli eventi, ma dalle persone, dalle loro trame e dai loro vissuti.
È proprio la lente della storia culturale a dare forma all’intera linea narrativa del film, che rimane in bilico, armoniosamente, tra la vicenda psicologica di un piccolo bambino strappato dalle braccia della madre, e quella di una società che, a poco a poco, comincia a non riconoscere più la superiorità assoluta dell’istituzione ecclesiastica.
La vicenda del piccolo Edgardo, diventa così, come spesso accade nella storia, il motivo di un racconto più grande: non solo la tensione tra il potere pontificio e la comunità ebraica – risolta spesso con la sottomissione della seconda alla prima – ma anche quella della conturbante figura del Papa (interpretata magistralmente da Paolo Pierobon).
Di quest’ultimo, i tratti rimangono in una nebbia di incertezza e ambiguità: è un’immagine oscura, a tratti riprovevole, che però non rientra nei codici standardizzati del villain. Questo perché il suo carattere abbandona le vesti di personaggio per lasciare il posto al simbolo: l’istituzione e il diritto canonico contro il progresso verso una società nuova. Del resto, una delle sue sentenze pronunciate verso l’inizio del secondo atto, appare quanto mai emblematica, a tratti quasi didascalica: “Mi hanno dato del reazionario. Io sono fermo, è il mondo che si muove verso il precipizio”. Egli rimane fermo, immobile, fino alla fine dei suoi giorni: non spetta a lui cambiare, ci pensa il mondo attorno, seguendo la via di una rivoluzione sempre più violenta.
Al centro di tutto questo, lo sguardo privilegiato è quello della figura di Edgardo. Sul personaggio di Edgardo occorre – o se non altro è utile – fare un passo alla preproduzione e analizzare la scelta dell’attore. Leonardo Maltese è nato e cresciuto a Ravenna (la sua provenienza romagnola è in linea con il lavoro sulla dizione del personaggio), e dopo qualche esame londinese si trasferisce definitivamente a Roma per studiare recitazione. Il suo grande debutto avviene con l’ultimo film di Gianni Amelio, Il signore delle formiche (2022) che spiana la sua strada verso il cinema d’autore.
È proprio a partire da quest’ultima interpretazione che si rintraccia una continuità nel personaggio di Edgardo. I due film, seppur in contesti storici e sociali completamente differenti, condividono un valore di partenza. Nell’opera di Amelio un giovane ragazzo, Ettore, sottoposto ai disumani trattamenti di cura a causa della sua relazione omosessuale, trattamenti finalizzati a “togliere di corpo il demonio” (sicuramente meriterebbe un approfondimento il costante riferimento a una precisa simbologia di matrice cattolica all’interno del nostro cinema, e non solo), lo rendono completamente sottomesso a un volere che non è il suo. La stessa violenza, in termini per alcuni versi ancora più oscuri, avviene sul piccolo Edgardo diretto da Bellocchio: un bambino che ancora non è in grado di intendere e di volere e che viene costretto a una continua pressione psicologica con la finalità della conversione al cattolicesimo.
Il pubblico che associa Leonardo Maltese a quest’unico altro, recente, ruolo, troverà ancora di più in Edgardo questo conflitto interiore tra ciò che è il nostro essere e quello che è l’essere imposto dall’educazione – un’educazione coercitiva e diabolica. Edgardo vorrebbe opporsi, reagire, ma non ha le forze. Ha solo qualche flebile gesto di ribellione nei confronti del Papa. Quest’ultimo, per il protagonista – sia bambino che adulto – assume i contorni di una figura abusante e allo stesso tempo paterna. Il parallelismo con l’immagine genitoriale del resto, secondo una regia degna del nome che porta, viene suggerito a più riprese. Appare in tal senso emblematica la sequenza in cui egli nasconde il piccolo sotto la veste papale per non farlo trovare dai suoi compagni durante il gioco di nascondino. Questo gesto si avvale del duplice valore di protezione (richiamando quello della madre all’inizio del film, che invano cercava così di nascondere il figlio) e di rapimento.
Del resto sono duali e oppositivi anche i sentimenti che Edgardo stesso nutre nei confronti di questa figura: un timore reverenziale lo conduce al completo assoggettamento, mentre la tortura lo spinge all’odio più profondo. Un odio, però, che ha il coraggio di esprimersi solo in qualche passione confusa e inaspettata di violenza: quella contro il Papa ancora in vita, e quella del corpo del Papa ormai deceduto, durante la rivolta ai funerali – “ma si, buttiamolo al fiume questo stronzo!”.
È proprio la dissacrazione del simbolo, in ultima analisi, a costituire la chiave di volta del film. Una dissacrazione che non può avvenire in Edgardo adulto – carico della sua educazione e delle sue sovrastrutture – ma solo in Edgardo bambino. Così egli sogna di alzarsi la notte, e liberare la statua del Cristo dai chiodi che lo trafiggono.
Il peccato è stato assolto: l’estirpazione del male può avvenire soltanto attraverso la dissacrazione. Decostruire per ricostruire qualcosa di giusto.
Silvia Campisano